“Quando ho visto la foto dell’infermiera stremata dai turni massacranti nel momento peggiore dell’emergenza sanitaria ho iniziato a piangere”. Francesca era anche lei in prima linea in ospedale. Anche lei distrutta dal lavoro a ciclo continuo, spinta dal desiderio di voler dare di più, provata psicologicamente da una situazione critica. Con una solo differenza: Francesca è una lavoratrice di serie B. Svolge lo stesso lavoro di Elena Pagliarini, l’operatrice sanitaria fotografata addormentata con il capo appoggiato sulla scrivania durante la prima ondata della pandemia. Ma non è un dipendente pubblico di un’azienda ospedaliera. Ha un contratto con una cooperativa del Lazio che ha vinto un appalto di servizi indetto da un’Asl di Roma.

Non vuole fornire troppi dettagli perché teme di essere riconosciuta e di perdere in futuro quello che ha. Ma vuole raccontare la sua storia simile a quella di altre migliaia di precari della sanità che di fatto integrano la forza lavoro pubblica del servizio sanitario nazionale e sono essenziali per la sanità pubblica. “Ho le stesse competenze, gli stessi orari, le stesse mansioni affidate ad un’infermiera interna ad un ospedale, ma non lo stesso contratto, lo stesso stipendio, gli stessi diritti in termini previdenziali” lamenta. “Lavoro secondo turni che spesso sforo, soprattutto in questa fase in cui l’emergenza sanitaria è ancora in corso. Lo faccio perché è il mestiere che amo e perché so che sto facendo qualcosa di buono per gli altri – continua – ma dentro di me sento inevitabilmente l’amarezza legata ad un senso di ingiustizia profondo. Perché esistono differenze importanti fra lavoratori pubblici e privati che offrono lo stesso servizio nella stessa struttura statale?” si domanda.

Francesca non è certo alle prime armi. Cinquant’anni, due figli, separata, ha fatto mille mestieri prima di decidere di diventare infermiera otto anni fa. “Da allora sono stata sempre precaria con contratti che vengono rinnovati di anno in anno dalla cooperativa per cui lavoro – spiega -Ma il peggio è che sono anche mal pagata rispetto ad un collega che è inserito nell’organico del sistema sanitario. Guadagno mediamente il 30% in meno e lo straordinario è forfettizzato. In un lavoro come il mio, se hai un cuore, lo straordinario fa praticamente parte della normalità. Se un paziente ti chiede qualcosa mentre stai andando via, non puoi far finta di non sentire. Almeno io non ce la faccio”. Non ci sono medaglie per questo. “La tv ci ha chiamato eroi durante la fase più dura dell’emergenza sanitaria. Ma ora vorremmo che la gente e lo Stato si ricordassero di noi – conclude – Il servizio sanitario nazionale va rafforzato. C’è bisogno di più gente. Io ho l’esperienza per fare bene in un luogo di lavoro dove di fatto sono già presente. Spero sinceramente che se ne tenga conto e si metta fine a questa ingiusta discriminazione lavorativa verso chi dà tanto per assistere i pazienti. Nel migliore dei modi nonostante tutto”.

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