Dopo due anni di rinvii, da gennaio anche in Italia partirà la web tax. Ad ufficializzarlo è stato, ieri, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: “E’ una delle componenti della manovra”, ha spiegato al termine dell’Ecofin. Sulla carta, la tassa del 3% sui ricavi delle grandi imprese del web c’è già: l’hanno prevista prima la manovra del 2017 e poi la legge di Bilancio per il 2019 del governo gialloverde, che quantificava in 150 milioni il gettito atteso nel primo anno di applicazione. Ma finora non è mai stato approvato il necessario decreto attuativo del Tesoro di concerto con lo Sviluppo economico, sentito il Garante per la privacy e l’Agenzia per l’Italia digitale. Con ogni probabilità, la misura che il governo intende rendere operativa dal 2020 si baserà su quella ora in standby che, sulla falsariga delle web tax francese e spagnola, si applicherebbe alle società con oltre 750 milioni di ricavi all’anno nel mondo, di cui almeno 5,5 in Italia. Dopo i 150 milioni del 2019, il bilancio gialloverde prevedeva che il gettito salisse a 600 milioni all’anno per il 2020 e 2021.

A frenare, finora, sono state anche le difficoltà a raggiungere un accordo a livello internazionale che renda omogenee le tassazioni, per evitare che i colossi del web ritengano alcuni Paesi più appetibili rispetto ad altri. Non a caso, nella nota di aggiornamento al Def varata nei giorni scorsi dal governo Pd-M5S-Leu la digital tax è accostata a un “ampio processo di riforma dell’imposizione sugli utili d’impresa concordato a livello internazionale”. E proprio ieri l’Ocse ha rilanciato la web tax, annunciando una proposta ad hoc che verrà presentata al G20 dei ministri delle Finanze, in programma il 17 e il 18 ottobre a Washington. Una riforma planetaria, difficile quanto ambiziosa, che dovrà trovare l’accordo di leader dalle posizioni diverse come Donald Trump e Xi Jinping, Boris Johnson e Emmanuel Macron.

Il testo presentato dall’Ocse punta ad “assicurare che i grandi e assai redditizi gruppi multinazionali, incluse le società digitali, paghino le tasse dovunque abbiano significativi legami diretti con i consumatori e generino i loro profitti“. Ed al momento è arrivata una prima, positiva, reazione di Amazon. Le proposte Ocse “rappresentano un importante passo avanti”, dichiara il gruppo delle vendite on-line, dicendosi determinato a “raggiungere una soluzione basata sul consenso”. Anche “per limitare il rischio di doppia tassazione e misure unilaterali distorsive e creare un ambiente che favorisca la crescita del commercio globale, che è vitale per i milioni di clienti e venditori che Amazon supporta nel mondo”.

Nel documento posto alla pubblica consultazione l’Ocse propone dunque un approccio comune per evitare che gli Stati agiscano ognuno in modo diverso dall’altro, come fatto di recente dalla Francia con la taxe Gafa. La proposta riunisce gli elementi comuni da tre progetti avanzati da Paesi che aderiscono all’Inclusive Framerwork sul Beps (Base Erosion and Profit Shifting) in sede Ocse/G20, che riunisce 134 Paesi e mira a contrastare l’evasione fiscale internazionale da parte delle multinazionali. L’istituto parigino propone di riallocare alcuni profitti e la corrispondente parte dei diritti di imposizione nei Paesi dove le multinazionali hanno mercato. In questo modo le multinazionali che hanno un’attività significativa negli Stati dove non hanno una presenza fisica verrebbero comunque tassate, attraverso la creazione di nuove regole specifiche. “Se non sarà trovato un accordo entro il 2020 – ha ammonito il segretario generale dell’Ocse – c’è il rischio che i Paesi agiscano unilateralmente, con conseguenze negative nella già fragile economia globale. Non dobbiamo permettere che questo accada”.

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