Sono nato e cresciuto in Italia, paese che tuttora considero la mia patria pur avendo speso la maggior parte degli ultimi 20 anni all’estero. E da 7 anni vivo in Australia, paese di cui sono diventato (orgogliosamente) cittadino. Mi ritrovo quindi in mezzo a questa guerra diplomatica che si è scatenata nelle ultime 24 ore sull’invio in Australia di 250mila dosi del vaccino AstraZeneca, bloccato dalla Commissione Europea per iniziativa del governo Draghi.

Precisiamo anzitutto come per l’Australia non si tratti di una notizia drammatica. Come ha spiegato il Ministro della Salute Greg Hunt, questo intoppo non avrà alcun impatto sul piano vaccinale nazionale, la cui fase B inizierà tra meno di tre settimane con la somministrazione delle prime dosi di vaccino AstraZeneca prodotte qui in Australia. Le 250mila dosi bloccate da Bruxelles erano infatti una partita extra, non contabilizzate nel piano di distribuzione messo a punto dal Governo federale per i vari Stati del paese.

Ciononostante, l’Australia ha chiesto alla Commissione Europa di rivedere la propria decisione e sbloccare l’invio delle dosi, contando sulla comodità di avere una quantità extra nel caso qualcosa andasse storto nella produzione locale. Pur nell’isteria collettiva cui stiamo assistendo in queste settimane, con l’insorgenza di “sovranismi e nazionalismi vaccinali”, ancora una volta l’Australia si è distinta per classe e moderazione. Il Chief Medical Officer Paul Kelly – commentando la decisione della Commissione Europa – ha infatti sottolineato come Bruxelles stia fondamentalmente adottando una logica comprensibile, considerando l’esigua quantità di casi in Australia (60 nell’ultima settimana, tutti provenienti dall’estero) rispetto ai terrificanti numeri italiani ed europei.

La questione in realtà solleva un interrogativo di fondo piuttosto inquietante, che si pone all’intersezione tra il bene supremo della salute pubblica opposto alla libertà di un’azienda privata di fare impresa nella maniera e forma a essa più’ conveniente da un punto di vista economico. Il problema nasce dall’accordo di supply iniziale firmato nell’agosto 2020, secondo il quale tutti gli Stati membri dell’Ue avrebbero avuto accesso a 300 milioni di dosi, con un’opzione per l’acquisto di una quantità aggiuntiva di 100 milioni. Il contratto specifica un prezzo per dose, secondo la Commissione Europea assai simile a quello pagato dalla Gran Bretagna, di cui in questo momento siamo tutti invidiosi vista la rapidità del roll out delle vaccinazioni.

A quanto pare, l’Australia si è mossa in ritardo ma con enorme potenza di fuoco, mettendo sul piatto un’offerta economica assai più allettante di quella europea, che ha provocato un certo “ridirezionamento” delle priorità di produzione dal pacchetto per i paesi europei a quello per altri paesi (tra cui l’Australia) che pagano meglio.

Che il sistema sia sbagliato è evidente, quando se ne valutano le conseguenze. Ma, lasciando stare eventuali inadempienze contrattuali, da un punto di vista filosofico è del tutto normale che un’azienda privilegi la produzione per clienti più generosi. Fa parte del modello base di fare impresa, massimizzare il profitto e pertanto vendere a chi paga di più. Per questo non me la sento – ripeto, a meno che l’azienda abbia inadempiuto ad obblighi contrattuali – di attaccare a testa bassa AstraZeneca.

Il problema sta molto più a monte: in una vicenda come questa, in cui sono a rischio la salute pubblica mondiale e milioni di vite umane, non si può lasciare la leva di comando in mano all’autoregolamentazione del mercato privato. Un mondo in cui le nazioni che pagano meglio hanno un accesso più rapido alle cure mediche produce una società dove le disuguaglianze e il divario sociale aumenteranno drammaticamente ad ogni pandemia. E non si può pensare di delegare il controllo di una questione così maledettamente importante al management di un’azienda farmaceutica.

Qui ci vuole una regia mondiale ed unitaria. Poco importa che sia l’Organizzazione Mondiale della Sanità o l’Organizzazione Mondiale del Commercio, o un’altra agenzia sovranazionale. L’approccio alla distribuzione dei vaccini deve essere globale: si prende la lista dei paesi e si usano indicatori epidemologici di base per comparare indice di positività, indice di mortalità, dati statistici – composizione della popolazione per gruppi di età, disponibilità di posti letto per terapia intensive etc.. – e determinare quali siano i paesi più a rischio e dove risulta più urgente accelerare il ritmo delle vaccinazioni. E da lì si parte, indipendentemente dalla capacità di spesa e negoziale di ogni singolo paese.

Odio pensare che, ancora una volta, i paesi in via di sviluppo debbano mettersi in fondo alla fila e ricevere i servizi per ultimi, quando sappiamo benissimo che i loro sistemi sanitari non sono in grado – sia a livello di strutture ospedaliere che di personale medico – di garantire la stessa qualità di cura garantita nei paesi più sviluppati.

So che in questo momento parlare di una regia sovranazionale è altamente impopolare, visto il fuoco incrociato che si è scatenato contro la Commissione Europa per i ritardi nella distribuzione. E non commento sul merito. Ma l’approccio di un hub centrale di controllo e garanzia dell’equilibrio tra i paesi è assolutamente sacrosanto, se vogliamo evitare che ancora una volta il Dio denaro faccia da padrone.

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