Cinema

Tina Turner, gli abusi, il tentato suicidio e il buddismo. Le fragilità dell’icona del rock nel biopic presentato al Festival di Berlisno

L'opera per lei firmata da Dan Lindsay e T. J. Marti è la summa definitiva, umana e artistica - “the closure”, la chiusura - di questa performer straordinaria, portatrice di ferite superate nel tempo e grazie alle quali è diventata modello per diverse generazioni di donne abusate dai loro compagni. 

di Giovanna Trinchella

Due premi Oscar per un’artista già eterna. Tanto si merita Tina Turner, potente protagonista della seconda giornata della 71ma Berlinale, con il doc biopic Tina, per lei firmato da Dan Lindsay e T. J. Martin. In premiere mondiale alla kermesse berlinese, benché online, è la summa definitiva, umana e artistica – “the closure”, la chiusura – di questa performer straordinaria, icona rock di grinta e resistenza al femminile, portatrice di ferite superate nel tempo e grazie alle quali è diventata modello per diverse generazioni di donne abusate dai loro compagni. Per quanto di impostazione tradizionale, il film di scuderia Universal contiene un tesoro prezioso, che non si limita alla presenza della cantante, per l’occasione intervistata nella sua dimora a Zurigo nel 2019, anno del suo 80° compleanno. Si tratta di qualcosa di intangibile, quasi inafferrabile perché – probabilmente – rispecchia proprio il modo di essere della Turner, creatura così umana eppure “entità” fuori dal tempo e dallo spazio, quasi costituita da materiale di soprannaturale resistenza, già icona indiscussa in questa vita che le auguriamo lunghissima.

Una sopravvissuta per definizione, Tina Turner all’anagrafe Anna Mae Bullock, ha vissuto una vita dolorosa e complessa, per usare un eufemismo: picchiata, violentata, costantemente torturata dal primo marito Ike Turner, con cui iniziò la carriera nel 1962 nella band da lui formata, fuggì rocambolescamente da lui (“con 36 cents in borsa”) ottenendone il divorzio nel 1978, non senza aver tentato il suicidio un paio di anni prima. Coraggiosa come una leonessa e determinata a tenere “almeno il nome Tina Turner” si reinventò, resuscitando come donna e artista, sostenuta dal buddismo a cui si era convertita. E se la sua carriera è nota a tutti, così come i suoi libri confessione, i precedenti documentari (che oggi si rivelano tuttavia parziali..), il film del 1993 “Tina. What’s Love Got To Do With It” in cui è interpretata da Angela Basset, ed il musical della consacrazione – Tina – The Tina Turner Musical – del 2019, ciò che diventa una bella sorpresa è proprio questo documento/testimonianza che la celebra: capace di entrare nelle pieghe della donna per rivelarne le fragilità, sia quelle rimaste sia quelle superate, una madre di quattro figli – di cui uno, Craig, suicidatosi nel 2018, destinatario della dedica di questo film – una moglie e una donna in carriera. In altre parole, l’ordinaria esistenza di una persona che ha dovuto divenire straordinaria per sopravvivere. Non mancano gemme di repertorio, il suo rock esplosivo di energia, video d’epoca interlacciati a ricostruzioni dal sapore thriller, nel loro rivisitare i luoghi della violenza. Tina fa onore alla sua protagonista: la speranza è di poterlo presto vedere nei cinema italiani alla riapertura.

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