Un tizio di nome Mario. Un 17 giugno che si ripresenta sfuggente e ostinato ogni poche pagine del racconto. Una Padova zeppa e brulicante fondaco (ma anche Roma e Firenze), e i lunghi, articolati stralci di sensazioni, azioni, dialoghi accaduti nel passato che riemergono tra reale e immaginario alla mente del protagonista. Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio) è romanzo scandaglio, inquieto, voluttuoso, e perfino sadicamente violento con un “personaggio-io” autobiograficamente proustiano. Torsione letteraria ardita, finemente calibrata, viaggio impossibile al termine dell’inconscio, in bilico per una trentina di pagine sull’autocompiacimento formale e poi immersa in una ipnotizzante manipolazione psicologica del lettore. I capitoli si dividono tra personaggi (spesso ex fidanzate e compagne di Mario) e temi (le fototessere, i viaggi in treno, ecc… di Mario) che contengono fili carsici ricorrenti del protagonista come la sessualità, la fotografia, i libri. Nulla accade nell’esistenza di Mario che abbia un vero senso, una direzione narrativa classica, un movimento in avanti nel tempo. Tutto è fagocitato nella statizzazione, ca va sans dire, e del ripetersi del possibile ricordo. L’intelaiatura intermittente (personaggi e temi hanno una numerazione progressiva e rimescolata) fa sprigionare così il desiderio, l’(an)affettività pulsante, oscura, vivida di Mario (e coprotagoniste donne). Pagina dopo pagina il romanzo va oltre l’apparente disegno grottesco (l’intermezzo sublime sul generale Cadorna) a favore dello stagliarsi graduale di un’autoanalisi urticante, angosciante, senza appello. Divagazioni su divagazioni, subordinate su subordinate e all’improvviso scene fulminanti tra sedute di bdsm e doppie vite taciute senza lasciare appigli, la lingua di Mozzi penetra, scortica, fa un male terribile. “L’importante non è la letteratura, l’importante è la vita – e il coraggio”. Voto (straniante): 8
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