Malgrado la guerriglia delle ultime tre notti nella centrale piazza Al Nour, a Tripoli, seconda città del Libano, nel primo pomeriggio sono già confluite circa 200 persone. I blindati e le camionette delle Internal Security Forces (Isf) sono schierati, in attesa di una nuova, prevedibile esplosione di rabbia. “Sono mesi che vengo a protestare ed è l’unica cosa che mi rimane. Ho perso il lavoro a febbraio ed ogni giorno è una guerra, quindi la guerra in piazza non impressiona. I miei figli mangiano pane, pomodori e ceci non so nemmeno più da quanto, mia madre si è ammalata di Covid un mese fa e non siamo potuti nemmeno andare a fare un tampone. Chi me lo paga?”, commenta Adil quasi urlando, reduce da tre notti nelle quali si è abituato ad incanalare tutte le proprie forze nelle corde vocali. Altre proteste di minore portata sono state registrate nel sud del Paese – a Nabatiye, Tiro e Sidone – e nella valle della Beqaa.

Il bilancio degli scontri dell’ultima notte nella seconda città libanese è molto pesante: un uomo sulla trentina è morto per le ferite da arma da fuoco riportate – non è ancora chiara la dinamica – e 226 persone sono rimaste ferite durante gli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza di stanotte, di cui una ventina in modo grave. La Croce Rossa libanese ha trasportato 36 feriti negli ospedali cittadini, già duramente provati dall’aumento esponenziale dei casi di Covid-19. Tra questi ci sarebbero anche 26 soldati: le Isf hanno fatto sapere che un agente di sicurezza in particolare versa in gravi condizioni dopo essere stato colpito da una molotov. Lo scenario per i prossimi giorni non è promettente.

Le Isf hanno utilizzato come di consueto gli idranti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma – a cui i manifestanti hanno risposto con pietre, copertoni in fiamme e molotov -, in particolare nel tardo pomeriggio di ieri, quando un gruppo di insorti ha provato ad assaltare il palazzo del Comune, situato in via Istiqlal, nei pressi del porto di Mina. Diversi cittadini denunciano anche l’utilizzo di munizioni convenzionali, mentre al-Jazeera riporta una dichiarazione delle stesse Isf dove si afferma che nove agenti sono stati feriti da una “granata ad uso militare” lanciata verso di loro nei pressi del Serraglio. L’Orient Today riferisce di una manciata di cittadini colpiti alle gambe da proiettili.

I tripolini hanno ormai poco da perdere: già prima dell’inizio della pandemia, la città costiera del nord viveva una crisi ancor più profonda di quella che attanaglia il Paese da un paio di anni, aggravatasi in particolare dallo scorso marzo, quando il Libano ha dichiarato un default tecnico a causa del mancato pagamento di 1,2 miliardi di eurobond. A Tripoli il tasso di disoccupazione, già lo scorso maggio, sfiorava il 60%.

Poi è arrivato il coronavirus: dapprima saturando gli ospedali cittadini già alla fine di questa estate, soprattutto quelli di Al Monla, Al Salam e Rahma; quindi, vista la progressione preoccupante dei contagi, contribuendo a stimolare la dura decisione del governo del premier reggente Hassan Diab che lo scorso 15 gennaio ha disposto un lockdown totale nel Paese – locali, ristoranti ed esercizi commerciali chiusi, divieto di spostamento se non per comprovate esigenze lavorative – che durerà almeno fino all’8 febbraio, con una verosimile estensione all’orizzonte.

Un regime che un Paese in queste condizioni difficilmente può sopportare senza conseguenze incalcolabili sul proprio tessuto sociale. Nel frattempo, la formazione del governo vive un nuovo stallo: manca un accordo tra le parti politiche su una nuova premiership di Saad Hariri che negli ultimi mesi ha incontrato il presidente della Repubblica Michel Aoun diverse volte, ma senza successo.

Con le casse statali prosciugate dalla inesorabile evaporazione di riserve, crollo dei salari, una moneta locale che ha perso l’80% del suo valore in un anno, la graduale rimozione dei sussidi ai beni importati (cioè la gran parte) ed il primo caso di iperinflazione – il professor Hanke della John Hopkins University l’ha stimata attorno al 365% su base annuale lo scorso novembre, seconda solo a Venezuela e Zimbabwe – della storia del Medio Oriente, era preventivabile un’esplosione della rabbia a Tripoli: già durante le proteste anti-governative, iniziate ad ottobre 2019, la città aveva testimoniato i moti più continui, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “arouz al thawra“, la sposa della rivoluzione. I canti e i caroselli di piazza hanno però in breve tempo lasciato spazio alla frustrazione diffusa e ai crescenti disordini.

Majida, una donna libanese di Koura, villaggio a sud est di Tripoli, con tre figli ed un marito siriano, era una di quelle cittadine disincantate verso le manifestazioni di un anno fa, convinta della loro inutilità. Oggi è in piazza anche lei, nonostante gli acciacchi di una donna sulla settantina: “Tanto a casa è un inferno, da due mesi abbiamo tre ore di elettricità al giorno, l’acqua va e viene, il carburante per i generatori costa sempre di più e mio marito Rami, con questo lockdown, ha problemi a tornare in Siria (la famiglia vive grazie ai suoi commerci transfrontalieri, ndr). Sopravviviamo grazie a mia figlia, che lavora in Arabia Saudita e ci fa arrivare dei soldi, ma anche questo non so quanto durerà”.

Il lockdown annunciato lo scorso 15 gennaio è conseguenza obbligata dell’aggravarsi della pandemia: sono quasi 300mila i casi registrati e circa 2.500 i decessi, con un ritmo che fatica a scendere sotto i 3.000 contagi giornalieri. Numeri spaventosi per un paese di circa 6 milioni di persone (di cui almeno un milione nei campi profughi), esteso come l’Abruzzo e con un sistema sanitario quasi completamente privato. Il ministro della Salute, Hamad Hassan, nel frattempo ha fatto sapere che si augura di poter vaccinare l’80% della popolazione entro fine anno. Non è ancora chiaro come, visto che la crisi economica ha avuto un impatto anche sui medicinali. Per esempio il prezzo del Remdesivir ha raggiunto cifre fuori mercato e i sussidi sulle medicine stanno finendo.

Emblema dell’irreversibilità di una crisi economica senza precedenti dai tempi della guerra civile è una notizia di ieri: Anghami, la Spotify libanese, una piattaforma di musica in streaming con circa 70 milioni di utenti, ha annunciato che trasferirà il suo quartier generale ad Abu Dhabi. Laconico il tweet del cofondatore, Elie Habib, che ha sottolineato come la crisi economica abbia determinato la difficile decisione: “Negli ultimi due anni abbiamo provato in tutti i modi ad attrarre investimenti ma senza alcun successo”, ha scritto.

La decisione di Anghami è particolarmente allarmante perché a differenza di altre grandi aziende che in questi mesi hanno lasciato il Libano licenziando centinaia di dipendenti – come Coca Cola, Adidas, Marks and Spencer, Guess, Victoria’s Secret -, Anghami non aveva una infrastruttura particolarmente costosa, basandosi soprattutto sulla dimensione online. Ed è noto che un’azienda nazionale che decide di trasferire la sua sede difficilmente farà ritorno. Habib ha poi promesso che l’ufficio di Beirut rimarrà comunque aperto, rimarcando però come la città emiratina permetterà ad Anghami di crescere. “Una città che investirà nel nostro sogno, che ci ha accolto oltre ogni nostra aspettativa, che investirà nel nostro team, nella nostra tecnologia e nella nostra ricerca per molti anni a venire”, conclude Habib con un chiaro riferimento a ciò che la sua città, Beirut, non è più in grado di assicurare.

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