Non è una decisione popolare quella di includere i detenuti tra le categorie prioritarie rispetto alla vaccinazione anti Covid-19. Il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, che nei giorni scorsi ha annunciato che subito dopo coloro che hanno più di 80 anni sarà il turno di chi in carcere è recluso e di chi vi lavora, non ha certo puntato su un’affermazione volta a raccoglierei consensi.

È tuttavia una scelta di ragionevolezza e buon senso, oltre che una risposta con una precisa valenza etica. Una scelta sollecitata da più parti nelle scorse settimane, primi tra tutti dalla senatrice Liliana Segre e dal Garante Nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Nel Lazio, il Consiglio Regionale si è espresso favorevolmente, grazie al lavoro del Garante regionale Stefano Anastasia.

Una scelta che poggia su considerazioni mediche oggettive. Scrive nell’ultimo numero della rivista Antigone dal titolo Have prisons learnt from Covid-19? How the world has reacted to the pandemic behind bars l’infettivologo di fama internazionale Aldo Morrone, direttore dell’Istituto San Gallicano e da sempre in prima linea, in Europa e in Africa, nella lotta alle malattie che colpiscono le fasce meno protette della popolazione: “Tra i gruppi sociali maggiormente a rischio, i detenuti occupano una posizione di primo piano. Le strutture penitenziarie sono epicentri per numerose malattie infettive, a causa di tre fattori macroscopici: 1. inevitabile stretto contatto in strutture spesso sovraffollate, scarsamente ventilate e poco igieniche; 2. scarso accesso al servizio sanitario; 3. rapidissima diffusione degli agenti patogeni tra detenuti, visitatori e staff, all’interno e all’esterno della comunità carceraria (comunicazione interno-esterno). Per questa ragione questi non luoghi costituiscono parte integrante della risposta della sanità pubblica al Covid-19”.

Parte integrante della risposta della sanità pubblica. Qualora venga tralasciata, le ricadute sulla collettività intera rischiano di essere pesanti. Come è accaduto negli Stati Uniti d’America, dove le carceri hanno costituito un drammatico epicentro di diffusione del virus nella comunità circostante e dove i 19 focolai più vasti in assoluto si sono verificati in altrettante carceri. L’American Medical Association ha chiesto che i detenuti ricevano il vaccino assieme alle altre categorie identificate quali prioritarie. A oggi sono ben 4.040 i detenuti morti per Covid-19 e sono 242 i morti tra i componenti del personale penitenziario.

Vi sono dunque motivazioni scientifiche, condivise tra coloro che la scienza medica la frequentano, per sottoporre le carceri al vaccino in via prioritaria. Ma vi sono anche ragioni etiche, valide per tutti coloro che guardano alla pena non come a uno strumento di vendetta che debba essere solamente afflittivo.

Vaccinare le persone detenute permette, da un lato, di superare quello stato di terrore che si prova nel vivere in luogo chiuso, sovraffollato e poco rispettoso di norme igieniche, dal quale non si può uscire ma nel quale il virus può ad ogni momento entrare; dall’altro, permette di far uscire le carceri da quell’immobilismo nel quale la pandemia le ha precipitate, riavviando le attività scolastiche, lavorative, culturali, sportive così come si conviene a una pena che guardi al fine costituzionale del futuro reintegro in società della persona condannata.

La decisione governativa annunciata da Arcuri è poco popolare. Nonostante la sua ragionevolezza, si sentirà dire che i detenuti se la sono cercata e che non si possono sprecare dosi di vaccino per loro. È dunque ancor più meritorio che il governo sia andato in questa direzione. La buona politica non rincorre le decisioni popolari ma agisce secondo ragione e spiega le proprie azioni così da spostare l’asse della popolarità.

La buona politica non segue ma precede. Un grazie dunque al governo per aver preso questa decisione.

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