Nel giugno 2019 Papa Francesco, incontrando i Giudici panamericani nel Vertice su “Diritti sociali e Dottrina francescana”, richiamò l’attenzione su un importante concetto, che potrebbe riassumersi in: “Non c’è sviluppo con la povertà”, tema trattato nella enciclica Laudato Sì del maggio 2015 e, in particolare, nel capitolo sull’inequità planetaria.

In questa ricerca analizziamo la povertà nel mondo.

La distribuzione della ricchezza, misurata in termini di Pil pro capite confrontata con i dati dei primi 15 Paesi più ricchi e i 15 più poveri (Tab. 1), evidenzia grossi squilibri: a fronte di un’Africa dove si concentrano i Paesi più poveri (l’indicatore varia tra i 700 dollari della Repubblica Centrafricana e i 1800 della Guinea Bissau), troviamo i ricchi Paesi europei (dal Liechtenstein con 139.000 dollari di Pil pro capite a San Marino, con 59.500) e i piccoli Stati asiatici (Qatar, Macao, Singapore, Hong Kong, Kuwait, Emirati Arabi), dove il petrolio o il tipo di economia finanziaria e/o molto legata all’Occidente determinano la ricchezza.

È chiaro (Graf. 1) che solo poco più della metà (114) dei Paesi del mondo analizzati (196) ha un reddito pro capite superiore a circa 10.000 dollari e tre Paesi si trovano a una soglia che è 12 volte inferiore al limite minimo di quelli più ricchi.

Più esplicativa risulta la Tab. 2: si passa da Paesi in cui da tre quarti (Madagascar, Rep. Dem. del Congo) a due terzi (Guinea Bissau, Rep. Centrafricana) o alla metà (Turkmenistan, Mali) della popolazione vive con meno di 1,90 dollari al giorno pro capite, a quelli in cui la variazione è tra lo 0,2% e lo 0,02%. I primi si concentrano quasi esclusivamente in Africa, i secondi in Europa.

Indicatori indiretti dello stato di benessere di un Paese (Tab. 3), come il consumo di energia elettrica, evidenziano come in Africa vi siano i valori più bassi pro capite, mentre in Europa, Nord America e nei ricchi Stati asiatici, basati sull’economia petrolifera, quelli più alti: un islandese, primo in classifica, consuma circa 4000 volte più di un abitante del Ciad, in fondo alla graduatoria.

La disoccupazione, causa ed effetto della ricchezza (Tab. 4), è quindi molto elevata in Africa (Gibuti, 52%, e Rep. Dem. del Congo, 49,1% all’apice della classifica), mentre il Qatar e la Cambogia l’hanno quasi sconfitta (0,2%).

Le conseguenze della scarsità di risorse alimentari e della povertà si riscontrano (Tab. 5) in una speranza di vita di 1,76 volte più elevata per un abitante del Principato di Monaco, rispetto ad uno del Ciad (circa 90 anni, contro 51, rispettivamente). I 15 Paesi con speranza di vita più bassa al mondo sono africani dal Congo (57,7 anni) al Ciad (50,6).

Su 223 Paesi analizzati (Graf. 2) oltre la metà (154) può contare su una aspettativa di vita tra i 71 e gli 80 anni, ma il 10% non andrà oltre i 60 anni (23).

Il Tasso di mortalità infantile (Tab. 6) è conseguenza più o meno diretta di fame e povertà: in Afghanistan 122 bambini muoiono nel primo anno di vita, a fronte di mille nati vivi nello stesso periodo. Dietro di esso si collocano altri 14 Paesi, tutti africani, con un tasso variabile tra 100 e 75; di contro la schiera di Paesi con appena 2 bambini morti per mille nati vivi, tutti europei, a cui si aggiungono Giappone, Singapore e Macao.

Poi la piaga dei bimbi fino a 5 anni sottopeso (Tab. 7), quasi tutti concentrati in Paesi africani: in testa alla classifica dei 15 Paesi più penalizzati l’Eritrea (38,8%), in fondo il Nepal (27%).

Sintetizzando in un unico indice – Indice di sviluppo umano – la Speranza di vita, l’Istruzione e il Pil pro capite (Tab. 8) si perviene a una classifica, che pone, ancora una volta, 9 Paesi europei tra i primi 15 in testa alla classifica e 14 africani tra quelli in fondo: la Norvegia (la più sviluppata) registra un indice di 2,7 volte superiore a quello del Centrafrica (il meno sviluppato).

La carrellata di dati non lascia dubbi su una suddivisione del mondo tra ricchi e poveri, tra un Sud – in particolare africano – che vive con pochi dollari pro capite al giorno, afflitto da denutrizione e mortalità infantile, e un ricco Nord che ancora si pone la domanda se accettare o no gli immigrati economici, distinguendoli da quelli per guerra.

Non si tratta di fare i buonisti, ma di ragionare su questi numeri e trovare modelli di sviluppo che non favoriscano solo una parte del mondo, ma che armonicamente puntino verso un equilibrio, mitigando gli egoismi di parte, che rappresentano solo una miope vittoria, per i più ricchi, di breve periodo, a spese dei più poveri.

Ha collaborato Mariano Ferrazzano

Articolo Precedente

Le eccezioni in Italia sono la norma: ecco quattro esempi per me significativi

next
Articolo Successivo

Quale futuro per l’Italia? Le parole di Indro Montanelli sono più che mai attuali

next