“Je n’ai pas besoin de paraitre, je suis”. Lo spirito, l’essenza, il fascino dello stilista Pierre Cardin, morto a 98 anni la scorsa notte in un ospedale di Nuilly, vicino a Parigi, sono racchiusi in queste brevi e lapidarie parole. Colui che ha reinventato la moda in chiave futuristica, sbarazzina, dinamica, silhouette geometriche e affilate, cromatismi vivaci e impetuosi, dall’iconica collezione di abiti senza colletto per i Beatles ai vestiti flamboyant di Jacqueline Kennedy, ha sempre vissuto in chiave mitologica di sé stesso fin dagli anni cinquanta. Un po’ per quel gioco divistico che serve a impreziosire la propria immagine, un po’ per quella altezzosa raffinatezza che fanno “personaggio” da alta società alla francese, Cardin, all’inizio degli anni sessanta, ha rappresentato la decostruzione della norma (per questo da molte parte leggerete stilista “rivoluzionario” …) in fatto di taglio di un abito, di forma, di linee. Una vulgata unisex, spaziale, spigolosa a allo stesso tempo ariosa, come mai era accaduto, finendo per vestire star del cinema dentro e fuori dal set. Le origini italiane da Pietro Costante Cardin (che spettacolo la i stretta dei veneti che diventerà una e aperta alla francese), figlio di proprietari terrieri finiti sul lastrico dopo la prima guerra mondiale, Pietro (o Pierre) si trovò trasferito in Francia che nemmeno aveva due anni. Papà e mamma a cercar fortune e lui a 14 anni già con ago e filo per affermarsi da sarto creativo e istintivo. Nel ’45 è a Parigi lavora fugacemente per Elsa Schiapparelli, poi nel ’47 Balenciaga lo rifiuta e Christian Dior lo fa diventare primo sarto della sua neonata maison. Tempo qualche anno e Cardin si autonomizza, esplode, trasforma il mondo della moda, quasi che i vestitini bombati a bolle guardassero dall’alto al basso, con quella traiettoria da haute couture che impone e fa sciogliere forme e colori nelle ripetizioni artigianali per le persone comuni che acquistano ai grandi magazzini. Nei primi anni sessanta è già un Dio della moda. È l’epoca dello “space age look”. I suoi abiti finiscono addosso a Elizabeth Taylor, Joanne Woodward, Brigitte Bardot, Mia Farrow. Inondano il cinema e la tv (ricordate la serie originale The Avengers?). È lì che Cardin veste donne e uomini, linea cangiante, miscela esplosiva, un unicum estetico di eleganza geometrica dal tratto marcato. Dal 1965, cioè nemmeno dieci anni dopo la sua prima sfilata, le sue modelle sono già un florilegio indistinto multicolored (l’ultima è Naomi Campbell, per dire) segno di una società che cambia e che necessita di una moda che traduca gonna e giacca, abito lungo e exploit serale, quel cambiamento. Gay dichiarato (le 144 rose che Dior invia nel ’54 a Pierre dopo la sua prima sfilata sono l’unico apostrofo rosso in un portamento signorilmente mai oltre il blu elettrico) vive comunque una clamorosa relazione etero con Jeanne Moreau, anche se rimarrà legato profondamente al suo assistente personale André Olivier. Nel 1969 è l’unico uomo “comune” al mondo ad indossare la tuta degli astronauti che sbarcarono sulla luna. Nel 1974 è uomo dell’anno in copertina sul Time, primo stilista della storia, e prima che ci finisca la nuova ondata di colleghi italiani che conquisterà il mondo.

Cardin è talmente iconico oltre le stigmate dell’alta società, talmente visionario e addirittura iconoclasta da ridisegnare il Bargon Tagalog, il costume nazionale filippino, in accordo con il presidente Ferdinand Marcos, aprendolo clamorosamente sul davanti. Intanto la sua impresa commerciale, quella che supporta il marchio Cardin, diventa un impero. Non solo abiti, ma pentole, padelle, mobili, profumi, automobili, perfino una catena di ristoranti che comprende il parigino Maxim’s, frutto della celebre battuta di Jean Paul Gaultier che circola su Cardin: “Non lo fecero entrare da Maxim’s perché non aveva la cravatta e vent’anni dopo se lo comprò”. Negli anni ottanta i suoi abiti scavalcano le passerelle e finiscono perfino in mostra al Metropolitan Museum di New York. Instancabile e attento a non cedere il proprio marchio a qualche fondo di business man avventurieri che rilevano grandi marchi con soldi inesistenti per fare diventare la storia una poltiglia globalizzata, Cardin ha ristretto sempre più il cerchio degli addetti ai lavori presente alla prima delle proprie nuove collezioni. Recentemente, oltre al piacevole ritratto protagonista nel documentario del 2019 House of Cardin”, rilasciò una lunga intervista a France Culture spiegando le origini del suo instnacabile processo creativo: “È piuttosto astratto, non mi ispiro ai costumi o alla cultura del passato, ma ad esempio ad un camino, una ruota, un’auto, un pezzo di corda, un cuscino, un dispositivo radio, una pietra. Tutto diventa fonte di ispirazione e cerco di incorporare una forma che non segue il corpo . Ho una pratica molto diversa da tutti i miei colleghi: il corpo è assente, astratto, non penso al corpo. Cerco di mettere un materiale, vale a dire una colonna vertebrale, un fisico, un corpo, in un indumento, in modo che prenda la forma dell’indumento. Questa è la mia visione, per così dire, dell’abbigliamento”.

Leggenda della moda internazionale, Pierre Cardin è stato il primo stilista a creare il prêt-à-porter nel 1959 sfilando nei grandi magazzini parigini Printemps. Dall’abito nero con collo alla coreana dei Beatles ai mini-abiti multicolor con zip e oblò, le sue creazioni hanno rivoluzionato lo stile, incarnando l’utopia degli anni Sessanta, ispirata anche dalla sfida per la conquista dello Spazio. Moda, accessori, arredamento, profumi e ristoranti: il suo lavoro ha spaziato per diversi ambiti, lasciando sempre il segno.

“È un pericolo per la moda continuare a produrre – diceva – : io, ho uno stile riconoscibile che è la mia firma, lo stesso non si può dire degli altri”. Nato il 2 luglio 1922 a Sant’Andrea di Barbarana, in provincia di Treviso, da genitori contadini, Pietro Costante Cardini è cresciuto in Francia dove la sua famiglia si era rifugiata durante fascismo.

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