Nell’anno in cui abbiamo salutato Eddie Van Halen, Peter Green e Bill Withers, ricordare i quaranta che ricorrono dall’omicidio di John Lennon è cosa buona e giusta da una parte, sadica e basta dall’altra. Al di là del lascito musicale, che sopravvive all’artista, sarebbe bene comprendere come, e perché, avremmo un bisogno tremendo di personaggi del suo calibro e spessore oggi.

Non parlasse abbastanza quanto fatto con i Beatles, a Lennon riuscì l’impresa di affermarsi col suo nome e cognome, nonostante un passato certamente ingombrante: è infatti, tuttora, l’artista inglese di maggior successo di tutti i tempi, seguito (neanche a farlo apposta) da Paul McCartney. I primi passi in autonomia li aveva compiuti a partire dalla metà degli anni Sessanta, pubblicando due libri (In His Own Write e A Spaniard In The Works) e tre dischi, già questi in coppia (Unfinished Music No. 1: Two Virgins, Unfinished Music No. 2: Life With The Lions e The Wedding Album) di difficile masticazione: pensiamo alla sola Radio Play, riproduzione – fedele – di 12 minuti di mancata sintonizzazione radiofonica.

Provocatorio nella forma come nella sostanza, concreto e sempre in maniera lampante: come quando, contrario all’appoggio dato dall’Inghilterra agli Stati Uniti nella guerra in Vietnam, restituì medaglia e titolo di Baronetto. Farà addirittura peggio David Bowie, in tempi più recenti: quando nel 2003 rifiuterà il riconoscimento, causando ulteriori imbarazzi a corte. Non parliamo poi di Bob Dylan, e della sua reticenza un po’ piaciona ad accettare il Nobel per la Letteratura nel 2016.

Se guardiamo a Lennon attraverso le sue canzoni, specie da solista, ne cogliamo l’autoanalisi, i lamenti, il dolore, il testamento umano oltre che artistico: leggendo invece la versione fornita nero su bianco ad esempio da Powell, nel celebre The Lives Of John Lennon, potremmo pensare – a torto o ragione – di essere al cospetto di un impostore, un vile, un misogino, un tossico. E lo stesso diceva di lui l’ex consorte Cynthia: che Lennon avrebbe colpito, almeno una volta, in preda alla gelosia e con la quale ebbe quel Julian (anch’egli cantautore) che esitò, e non poco, a riconoscere come suo figlio.

Lennon è presente, ieri come oggi, anche nella sua assenza: nei momenti, tanti, in cui qualcosa o qualcuno ha confermato, o disconfermato, l’immagine di un santo cui parecchi hanno finito per aggrapparsi. Lo stesso che chiedeva secchiate di riverbero al produttore George Martin, perché non convinto della propria voce, deciso a riregistrare canzoni divenute ben presto megafono dell’umore e della coscienza collettiva di milioni di persone, così come erano uscite dalla sala d’incisione.

Tutto questo ben prima che Susanna Ceccardi parlasse di Imagine come di un inno comunista e marxista ma comunque in tempo, ahinoi, perché la sera dell’8 dicembre 1980 Mark Chapman, armato di una Calibro 38, decidesse di scaricargli addosso cinque proiettili di fronte al tristemente noto Dakota Building: lo stesso complesso residenziale nel quale abitarono (ça va sans dire) Leonard Bernstein e Rudolf Nureyev. A guidarlo per mano, lungo il corridoio della follia (dirà poi) niente meno che Il Giovane Holden di Salinger: circostanza, questa, che ispirerà il brano Catcher In The Rye dei Guns ‘N’ Roses.

Tornando a noi: cosa ne penserebbe Lennon del ritorno in pompa magna dei nazionalismi? Del prevalere dell’io sul noi? Lui che morì troppo presto per vedere abbattuto il muro più grande e significativo al mondo, quello di Berlino, ma che se tornasse in vita oggi ne vedrebbe spuntare invece di nuovi come funghi. Chissà che magari non sceglierebbe il silenzio, sentendosi un pesce fuor d’acqua, oppure sarebbe sempre lì in prima linea: come un Neil Young, un Bruce Springsteen o un Eddie Vedder dei giorni nostri.

Magari avrebbe ceduto e scelto, alla fine, di intraprendere una volta per tutte la carriera d’attore. O peggio potremmo ritrovarcelo a tifare per Trump, come un John Lydon qualsiasi. Certo è che guardando al presente, e a come s’è ridotto il livello del dibattito, nonostante l’impegno profuso, le canzoni (gli inni, appunto) scritte, a Lennon potremmo concedere al massimo una pacca sulla spalla: il brutto sarebbe poi dirgli che aveva sì ragione, e forse anche troppo. Così tanto da aver sperato in un futuro che era lì, ad un tiro di schioppo, ma che ha fatto il giro diventando passato.

In questo eterno ritorno alle cose che furono, conserviamo allora gelosamente almeno le sue canzoni, traendone se non l’insegnamento, la morale, cercando di coglierne anche solo la bellezza.

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