di Adriano Tedde *

La vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti avrà effetti positivi per l’Australia. Le politiche isolazioniste e protezioniste di Trump erano nocive per questo paese che tradizionalmente conta sulla potenza militare degli Usa per la sicurezza della sua regione, nonché sul libero scambio per la sua prosperità economica. L’arrivo del nuovo inquilino della Casa Bianca dovrebbe dunque tranquillizzare gli australiani che si attendono un ritorno alla “normalità” nelle relazioni con il grande alleato.

Eppure, nonostante i previsti benefici di cui godrà l’Australia con l’insediamento della nuova amministrazione a Washington, chiunque avesse letto i titoli della principale testata nazionale la scorsa domenica mattina, a poche ore dall’annuncio della vittoria decisiva di Biden in Pennsylvania, avrebbe pensato che l’Australia fosse uno dei paesi da includere nella lista dei delusi per la sconfitta di Trump insieme all’Ungheria, la Serbia e l’Arabia Saudita.

Mentre i siti dei principali quotidiani del mondo riportavano la notizia della vittoria di Biden come un evento di grande rilevanza, sulla pagina web di The Australian le informazioni su quanto appena accaduto negli Usa si perdevano in un mare di lamentazioni e premonizioni funeste. “Molto di cui preoccuparsi con Biden al timone”, titola il commento dell’editore associato. “Sarà anche il Presidente eletto, ma è Biden in grado di governare?”, si chiede Paul Kelly, rispettato analista di lunga data, che quattro anni fa non si pose lo stesso problema con l’elezione di Trump. E ancora, “Perché la possibile sconfitta di Trump non segna la fine”; “Trump e la vera resistenza”; “Elitè escluse dal coro”. Nel frattempo, in questa serie di gemiti, neanche una riga informava i lettori australiani del fatto che per la prima volta nella storia americana ci sarà una donna alla vice presidenza.

Da decenni The Australian è la voce dell’Australia, il principale organo di stampa, la più autorevole fonte di informazione del paese. Oggi la testata si presenta come un organo politico, un quotidiano fazioso che vira sempre più verso posizioni di estrema destra, negazioniste e intolleranti. Come si spiega questa litania filo-trumpiana sul quotidiano più venduto in un paese storicamente amico degli Stati Uniti, guidato da un governo che si autodefinisce conservatore-moderato? La risposta è semplice ed è contenuta tutta in un nome: Rupert Murdoch.

Il magnate australiano è a capo di News Corp, un gigante mediatico che in Australia possiede oltre 140 testate, insieme a televisioni, servizi digitali e una squadra di rugby. Il 23% di quello che si può comprare in un’edicola australiana appartiene a Murdoch. E nel caso dei quotidiani venduti nelle aree metropolitane, questa percentuale sale al 75%. Se si esclude l’Australian Financial Review, il corrispettivo australiano del nostro Sole24Ore, The Australian è l’unico quotidiano a tiratura nazionale, ossia un giornale che non è legato a una specifica realtà metropolitana o regionale, come sono invece tutti gli altri giornali del paese, tra i quali si contano l’Herald Sun di Melbourne, il Daily Telegraph di Sydney e il Courier-Mail di Brisbane (tutti, chiaramente, di proprietà di Murdoch).

Murdoch è stato protagonista di lunghi anni di laboriose campagne di lobby che hanno gradualmente portato alla liberalizzazione del settore e consentito in tal modo il suo dominio sui media. In linea con la strategia commerciale e l’ideologia di Murdoch, i politici conservatori da anni hanno preso di mira l’azienda pubblica dell’Abc, accusandola di essere di sinistra. Una costante diminuzione di fondi pubblici e l’eliminazione di giornalisti sgraditi hanno portato alla diluizione dei contenuti dei programmi d’informazione televisivi e radiofonici dell’Abc.

Il caso più evidente di questo esito negativo per l’informazione pubblica lo si è potuto vedere all’inizio di quest’anno quando, nel corso dei devastanti incendi boschivi nel sud-est del paese – i peggiori della storia – i media esteri offrivano servizi ben più dettagliati e puntuali di quelli dell’Abc, che non ha mai messo il governo di fronte alle sue responsabilità nella pessima gestione dell’emergenza. Questo accadeva mentre i media di Murdoch continuavano ad insistere con la storia che gli incendi fossero tutta opera dei piromani.

Preoccupati dallo stato di salute dei media australiani, due rivali in politica, gli ex primi ministri Kevin Rudd (laburista) e Malcolm Turnbull (liberale), hanno unito le loro voci per la prima volta per suonare l’allarme contro la posizione di potere assunta da Murdoch. Il primo, senza usare mezzi termini, he definito i media di Murdoch “un cancro per la democrazia”. Il secondo ha affermato che la News Corp di Murdoch ha già gravemente danneggiato la democrazia occidentale, in particolare negli Stati Uniti e in Australia.

Questa settimana Rudd depositerà in Parlamento una raccolta di mezzo milione di firme che accompagnano la petizione per una commissione d’inchiesta sulla indebita e smisurata azione d’influenza politica esercitata a livello nazionale e globale dall’azienda di Murdoch. Rudd è cosciente del fatto che la commissione non potrebbe mai vedere la luce del sole, necessitando un voto di maggioranza che non verrà raggiunto con l’attuale Parlamento, ma ha dichiarato che l’iniziativa ha come primo obiettivo quello di avviare un dibattito al momento completamente assente sulla scena pubblica australiana.

Turnbull, a sua volta, lo scorso aprile aveva rivelato di essere stato il principale attore politico nella creazione nel 2013 della pagina online australiana del quotidiano britannico The Guardian. Nonostante la testata sia dichiaratamente di sinistra, il conservatore Turnbull aveva voluto il suo ingresso in Australia per favorire un’informazione pluralista, intuendo già da allora la deriva populista dei mass media australiani per mano di Murdoch. Con l’uscita di scena di Trump, negli ultimi due giorni

Turnbull è tornato a parlare ai microfoni dell’Abc per attaccare Murdoch soprattutto sul tema dei cambiamenti climatici. L’ex primo ministro ha accusato The Australian di essere diventato uno strumento di propaganda e di aver ridotto l’emergenza ambientale da una inconfutabile questione scientifica a un dibattito su valori e identità politiche. Facendo così, il quotidiano avrebbe privato gli australiani di informazioni chiare e oggettive, basate su dati scientifici che sono sistematicamente snobbati dalle sue colonne. Sminuendo il problema e dirigendo l’opinione pubblica verso posizioni negazioniste, i giornalisti di Murdoch sono stati in grado di inibire ogni azione politica volta a combattere i cambiamenti climatici in un paese che detiene tristi record in campo ambientale.

Ora che la politica ambientale americana dovrebbe cambiare, Turnbull ritiene che questo offrirà all’Australia un’occasione per avviare nuove politiche energetiche ed ambientali che guardino al futuro. Ma la stampa di Murdoch non mancherà di infangare il nome di ogni persona al governo che oserà riavviare il confronto politico sul tema, proprio come accadde allo stesso Turnbull nel corso del suo premierato nel 2018.

Questo nuovo dibattito si è aperto per ora nel silenzio dell’attuale primo ministro liberale, Scott Morrison, dichiarato nemico del servizio radiotelevisivo pubblico, che dal 2018 ha assunto posizioni sempre più vicine a Trump, soprattutto nei confronti della Cina e del tema dei cambiamenti climatici. Posizioni che la stampa di Murdoch ha sempre elogiato. Sarà ora interessante osservare se e come il nuovo corso della politica americana darà forza a ulteriori iniziative intese a frenare il dilagare del populismo dei media in Australia e se questo paese in un futuro non lontano potrà tornare ad essere una nazione d’ispirazione progressista come la vicina Nuova Zelanda di Jacinda Arden, dove l’impero mediatico di Murdoch non è arrivato.

* Ho lavorato come diplomatico per la Repubblica Italiana tra il 2004 e il 2016 e sono stato Console d’Italia per lo stato dell’Australia Occidentale, a Perth. Tra il 2011 e il 2015 ho assistito centinaia di connazionali arrivati qui attratti dalla ricca economia, toccando con mano il fenomeno dell’emorragia dei cervelli fuggiti dall’Italia. Nel 2016, dopo la nascita della mia prima figlia, sono diventato un ricercatore universitario in Australia. Rimango profondamente interessato alla politica italiana e seguo con attenzione la rapida evoluzione della sua vita sociale, politica ed economica.

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