Che succede se il Festival di Sanremo prende il meglio dei talent senza perdere la sua statura, la sua (presunta o reale, sicuramente percepita) autorevolezza agli occhi del mondo discografico e degli spettatori? Quello che viene considerato il “carrozzone” per antonomasia può con un colpo di reni guardare al futuro in modo credibile? A quanto pare, sì. Lo affermiamo dopo una lunga sessione di ascolti (e visioni, sul sito di Sanremo) dei brani candidati alle finali di AmaSanremo (sagace gioco di parole tra il festival e il nome del conduttore), in pratica le semifinali di Sanremo Giovani 2021, e dopo la prima puntata delle selezioni in TV, su Rai 1 da giovedì 29 ottobre in seconda serata.

Venti artisti, venti brani che coprono uno spettro molto ampio di ciò che può rappresentare oggi la musica italiana. Con una grande varietà di stili e suoni: si va dalla trap (peraltro piuttosto evoluta e non pedissequa, non scolastica come troppo spesso capita di sentire in giro) a quello che una volta chiamavamo indie e oggi è itpop, fino a una canzone d’autore finalmente svincolata da quei cliché polverosi che ci siamo portati dietro per decenni come un fardello dal metro di paragone insostenibile (perché se si cerca di replicare Dalla, De Gregori, Vasco, De André, il fallimento è logico per ragioni artistiche, stilistiche e temporali). C’è spazio per un certo tipo di rock molto italo come per le produzioni di matrice elettronica. Su tutto, un filo rosso fatto di artisti mediamente molto bravi, preparati, dalla forte e chiara personalità, e soprattutto, appunto, di canzoni. Che sono belle canzoni. Certo, non tutte memorabili. Ma mediamente molto buone, con una scrittura di livello, produzioni e arrangiamenti curati.

Un lavoro molto intelligente di cui va reso merito a una direzione artistica troppo spesso vituperata, snobbata, bersaglio di facili polemichette da social, e che invece sta gestendo un lavoro di restyling di tutto rispetto per il concorso più famoso del Paese. In sostanza, Amadeus e il suo team non stanno affatto lavorando male. Lo prova una giuria (questa di Sanremo Giovani) composta da personaggi che anche qui, senza dubbio, possiamo dire competenti e preparati sulla materia: perché possono starvi simpatici o meno, ma stiamo parlando di indubbi professionisti del settore. Piero Pelù e Morgan non hanno certo bisogno di presentazioni. Sono rockstar. Gente che decenni sta sul palco, che sa benissimo che cos’è la musica e come la si vive. Si può polemizzare sulle derive prese dai due, in modi e con modi diversi, nelle loro rispettive carriere. Si può dire male di Pelù che da maudit (letteralmente, come recitava un suo brano con i Litfiba) è passato a occupare le poltrone dei talent. E si può parlare per giorni di Morgan, davvero se ne può dire di tutto e di più. Ma in entrambi i casi, per farlo, dovremmo avere un curriculum come il loro, in quanto a concerti, dischi realizzati e venduti, e posizione nella storia della canzone italiana. E poi c’è Luca Barbarossa, uno che nella sua carriera ha sempre prediletto un certo understatement, anche negli anni del grande successo popolare, per poi virare verso la radio (che conduce peraltro con grande stile). Anche qui, siamo di fronte a un personaggio che conosce molto bene i meccanismi del sistema discografico e artistico. E poi, stupisce ed è una gioia vedere, nell’unica quota femminile in giuria (ehi, addirittura il 25%!), un personaggio che come pochi rappresenta un cambio generazionale, unendo la tradizione della musica classica a un modo tutto nuovo di intenderla e di comunicarla. Beatrice Venezi ha 30 anni ed è già una direttrice d’orchestra che vanta direzioni e collaborazioni a livello internazionale. Amata dal pubblico e dal settore, è una personalità dal carisma naturale, peraltro molto curiosa e aperta a tutte le contaminazioni della musica, tra passato e futuro. Una scelta azzeccatissima.

A spiccare tra i brani sono quelli dei progetti femminili: Ginevra (il suo pezzo si intitola “Vortice”) è attualmente la cantante più interessante del panorama nazionale, una scrittura tradizionale e pop supportata da produzioni elettroniche di area Burial/Four Tet, suoni alternativi in un tessuto musicale che svecchia il pop in modo elegante; Hu con la sua “Occhi Niagara” esplicita le influenze della musica da club e a sua volta ha tutto il potenziale per diventare un nuovo standard di alto livello nella musica pop del nostro Paese, e una storia di grande successo; Galea invece aggiorna i codici di certe grandi voci della musica italiana: senza fare paragoni prematuri, viene da pensare a Nada, Donatella Rettore. La sua “I Nostri 20” è un gioiello. Un’altra spendida scoperta è Sissi, con “Per Farti Paura”, canzone che naviga nelle acque dell’r’n’b di ultima generazione, più vicina allo stile made in UK che a quello americano. Altri nomi interessanti sono quello di Avincola, che ricalca gli stilemi indie degli anni ’10 con “Goal!”; Thomas Cheval con la sua “Acqua Minerale”, intelligente riassemblaggio di trap e melodia, con il ritornello “bevi bevi manda giù” che è in aria di tormentone; Wrongonyou, attualissimo nella sua “Lezioni Di Volo”; e Davide Shorty, nome dal curriculum già importante, e dal suono funkeggiante: “Regina” si muove in territori non troppo distanti da quello che un tempo chiamavamo acid jazz.

Ma la gara è un’altra cosa, e la verità è che tutti i brani in gara, anche quella buona metà che ricalca stilemi e scrittura consueti, già sentiti, quasi cliché di tanta musica italiana e internazionale nota e ampiamente masticata e digerita dal pubblico, godono di una buona scrittura, di una produzione che è in linea con gli standard del momento; certo non sempre si sublima il connubio tra ricerca della popolarità da grande pubblico (stiamo parlando di Sanremo) e voglia di arrivarci attraverso strade nuove, diverse, un filo più rischiose della comfort zone di canzoni che seguono binari già rodati. Ma che si tratti di un rap di maniera, di un rock da FM, di una ballatona tradizionalmente italiana o di un pezzo vagamente impegnato nel sociale, sono tutti pezzi che non hanno nulla da invidiare a matrici spesso ben più banali e prive di guizzi creativi. E comunque, va considerato anche il sentimento popolare: non stiamo qui a fare i critici di nicchia a priori, allarghiamo il campo a una visione d’insieme che deve tenere conto del Paese reale. E in Italia, i palazzetti li fa Sfera Ebbasta ma li fa anche Ultimo.

Infatti, a smentire immediatamente un parere da insider, ecco che proprio Ginevra viene eliminata alla prima serata. In gara con lei, “La mia generazione” di Gavio, a sua volta fuori dalla competizione, e poi M.E.R.L.O.T. con “Sette volte” e Wrongonyou con “Lezioni di volo”. Il primo classicismo pop italo, scanzonato e un po’ furbetto, premiato infatti dal televoto più che dai giudici; il secondo davvero convincente sotto ogni punto di vista. Se la materia prima è ottima, lo spettacolo è asciutto, compatto, quasi marziale nella conduzione perentoria e succinta di Amadeus, con qualche breve intervento di Ema Stockholma (che si occupa delle dirette per Rai Radio 2) e le parentesi di Arisa che canta i suoi brani e di Riccardo Rossi che racconta aneddoti comici. I giudici, da parte loro, fanno un’ottima figura a livello dialettico, puntuali, precisi, senza iperboli e con interventi che spiegano bene le proprie opinioni. Brilla un Morgan composto e dall’outfit impeccabile; Pelù invece sembra un poco sedato, da lui ci aspettiamo sempre grinta da leone. Quello che non si spiega sono invece i voti, altissimi, che regalano a tutti i concorrenti. Che non hanno brillato, onestamente: se Ginevra e M.E.R.L.O.T. sono penalizzati da interpretazioni decisamente appesantite dall’emozione (evidente) di stare su quel palco, Gavio sembra invece un animale in gabbia, e si muove troppo e male (Barbarossa glielo fa notare con garbo da signore). Wrongonyou invece è a suo agio, non a caso arriva da una carriera più lunga anche dal vivo, e sa bene come gestire la ribalta. Nel 2020, sono dettagli che fanno la differenza, considerando che a monte le canzoni sono tutte ben prodotte e levigate. Il live diventa una prova del nove.

Tracciando un bilancio, AmaSanremo si presenta bene, a dirla tutta meglio dei talent da cui sembra prendere le caratteristiche migliori sgrassandosi invece di tutto ciò che sta facendo invecchiare e appassire format ben più colorati e appassionanti qualche stagione fa. Sarà che qui si cerca la sostanza oltre alla forma, e cantanti che abbiano qualcosa di dire oltre lo stoytelling squisitamente televisivo. O sarà che i protagonisti non sono i giudici, banalmente. Il resto lo fa lo spettacolo, ma se è netto il contrasto con il concorrente diretto di Sky, è anche vero che forse si sta giocando anche troppo sul filo del concetto: il rischio è quello di apparire fin troppo spartani; è giusto non concedere tutto a show e scenografia, ma è pure sempre televisione e vuole essere la serie A della televisione. Gli ospiti messi li senza una reale esigenza di copione e lo studio piccino, il palchetto, l’austerità generale sono davvero eccessive. Vero è che viviamo in tempi grami, senza possibilità di pubblico (e infatti X-Factor è nella bufera proprio per lo studio gremito in barba al clima sanitario generale). Ma Rai 1 si può e si deve permettere un light designer e un stage designer degni di questi nomi, per uno show che è lo spin-off del programma principale della stagione televisiva della rete. C’è da carburare, insomma. E vale anche i cantanti in gara.

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