Saad Hariri è stato incaricato dal Capo di Stato, Michel Aoun, di formare un nuovo governo in Libano. Il politico sunnita ha ricevuto 65 preferenze, ottenendo la maggioranza in un Parlamento da 128 seggi (per l’occasione 118, viste le dimissioni pregresse di una manciata di deputati). Fpm ed Hezbollah si sono astenuti sulla sua nomina, appoggiata invece dal partito socialista progressista druso di Walid Jumblatt, dal principale partito sciita di Amal (ago della bilancia, poiché si pensava potesse seguire le orme dei suoi alleati Fpm ed Hezbollah) e dallo stesso partito di Hariri (Mustaqbal).

Hariri, in una traiettoria che potrebbe essere definita “circolare”, torna così ad assumere l’incarico di primo ministro per la quarta volta, a quasi un anno esatto dalle dimissioni rassegnate il 28 ottobre 2019, incalzato dalle proteste anti-establishment iniziate una decina di giorni prima. Il figlio dell’ex premier Rafiq aveva dato la sua disponibilità a ricoprire nuovamente il ruolo di primo ministro due settimane fa, dopo che nel corso del 2020 per due volte – a gennaio e a settembre – aveva escluso questa possibilità, lasciando il campo prima al governo guidato da Hassan Diabdimessosi in seguito all’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto – e poi a Moustapha Adib, che si è chiamato fuori dopo 20 giorni dall’assunzione dell’incarico ad inizio settembre. Per consuetudine, il ruolo di primo ministro è assegnato ad un membro della comunità sunnita, quello di capo di Stato ad un cristiano maronita e quello di presidente del Parlamento ad un musulmano sciita. Un assetto istituzionale di power sharing confessionale che i manifestanti mirano in ultima istanza ad estinguere, poiché percepito come un moltiplicatore di settarismo, clientelismo e corruzione.

Come ha dimostrato anche la breve esperienza di Adib la nomina a primo ministro, nelle attuali condizioni di frammentazione politica e con le pressioni della piazza in protesta, non significa molto in se stessa. Hariri dovrà formare un complesso esecutivo, sulla cui composizione regna il più assoluto riserbo ma che lo stesso ha promesso sarà formato da “specialisti” e non da personalità legate ai partiti. Particolarmente delicate sembrano essere le assegnazioni dei ministeri dell’Energia, della Salute, della Giustizia e delle Finanze, che ha prodotto lo stallo che ha portato alle dimissioni di Adib.

Hariri dovrà anche riallacciare il dialogo col presidente francese Macron. Il leader francese si era recato in Libano all’indomani dell’esplosione al porto (200 morti, 6500 feriti) ed aveva annunciato un nuovo “patto politico” con la classe dirigente libanese, accompagnato dalla promessa di quest’ultima di formare un governo entro metà settembre. Promessa che Macron ha già definito “tradita” alla scadenza del periodo. Al Libano occorrono quanto prima due miliardi di dollari per rimanere a galla, in una congiuntura economica in caduta libera, con lo spettro della rimozione dei sussidi ai medicinali e al carburante, previsto per fine anno. Nel 2020 la lira ha perso l’80% del suo valore, i prezzi sono più che raddoppiati in un anno, il tasso di povertà è arrivato al 55%, il debito pubblico è tra i più alti al mondo e non esiste un piano credibile per la fornitura universale di elettricità. La comunità internazionale, per fornire aiuti, ha chiesto una serie di riforme, tra cui quella del sistema giudiziario e bancario.

L’ennesima nomina di Hariri da un lato segnala la mancanza di ricambio dirigenziale e dall’altro l’evanescenza dei riposizionamenti interni alla comunità sunnita, che da ormai 25 anni vede nella famiglia Hariri il centro gravitazionale della propria attività politica: una realtà che non sembra essere cambiata nemmeno dopo novembre 2017, quando Hariri mostrò al mondo i limiti della sua libertà di manovra, costretto dalla monarchia saudita – suo storico sponsor – a rassegnare in diretta da Riyad le dimissioni da capo del governo nel quale gli Al Saud mal tolleravano il peso di Hezbollah. Ieri sera i primi segnali dell’ennesima micro-frattura: nel centro di Beirut sono andati in scena alcuni scontri tra sostenitori di Hariri e manifestanti anti-establishment, con i primi che hanno dato alle fiamme l’iconico banner a forma di pugno chiuso eretto dalla piazza in protesta, e i secondi che hanno occupato una importante arteria del centro.

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