Dopo tre giorni di furiose proteste di piazza, sobillate nuovamente dall’esplosione al porto di Beirut che ha causato più di duecento vittime, oltre settemila feriti e circa trecentomila sfollati, il primo ministro Hassan Diab ha rassegnato le sue attese dimissioni. Incalzato dall’addio di quattro suoi ministri – in particolare quello delle Finanze, Ghazi Wazni, e quella della Giustizia, Marie-Claude Najm – nelle ultime 24 ore, Diab ha spiegato alla nazione la ragione ultima del suo passo indietro.

“È vero che la corruzione è radicata in tutti i gangli dello Stato, ma io mi sono reso conto che in realtà, qui, la corruzione è più grande dello stesso Stato. Che Dio benedica il Libano“, ha detto, amareggiato, in conferenza stampa. Parole simili, il giorno prima dell’esplosione, erano state usate dal dimissionario ministro degli Esteri Nassif Hitti, che aveva allertato sul rischio che il Libano si trasformasse definitivamente in uno Stato fallito.

Hassan Diab aveva assunto l’incarico lo scorso dicembre, dopo che la protesta esplosa il 17 ottobre aveva spinto l’allora premier Saad Hariri – a capo della principale formazione sunnita del paese, il partito Mustaqbal, in arabo “Futuro” – a lasciare a sua volta l’incarico. Professore della American University di Beirut, Diab si era presentato a capo di una squadra di tecnici – non affiliati ai partiti confessionali libanesi – ma aveva comunque registrato il sostegno, senza il quale non sarebbe stato nominato primo ministro, dei partiti che hanno la maggioranza all’interno del Parlamento libanese: in particolare Hezbollah ed Amal – le due formazioni sciite – ed il loro alleato della Corrente Patriottica Libera (Fpm), fondato dal Capo di Stato Michel Aoun, il partito cristiano-maronita con più seggi in Parlamento.

Da quel momento la rabbia dei manifestanti in Libano era stata indirizzata primariamente verso questi soggetti – soprattutto nelle figure di Aoun e Gebran Bassil, genero del primo ed attuale leader del Fpm, e Nabih Berri, leader di Amal e presidente del Parlamento dal 1992 – accusati in sostanza di tenere le redini di un governo che sulla carta era “tecnico” ma nei fatti politico. Hassan Diab in passato ha anche servito come ministro dell’Istruzione in un governo partecipato da Hezbollah, ma è stato incapace di avviare riforme per via di una scarsa autonomia decisionale e dei conflitti interni all’arena politica libanese. Tutto questo sembrava essere ulteriormente sancito dai ripetuti nulla di fatto registrati in una decina di meeting tra il Fondo Monetario Internazionale e delegazioni del governo libanese, accompagnati da malintesi, problemi di comunicazione e tensioni. I donatori internazionali chiedono al Libano in particolare una riforma del settore bancario e di quello pubblico: il primo considerato un amplificatore di opacità e mancanza di trasparenza, il secondo considerato un moltiplicatore di clientelismo e corruzione.

La pandemia ha avuto l’effetto di smorzare le proteste e concedere al governo un ulteriore credito temporaneo, anche per via di una discreta gestione della crisi sanitaria. L’esplosione al porto, però, ha caricato la frustrazione accumulata negli anni e negli ultimi mesi dai libanesi di una rabbia traboccante e tangibile: “Ci avete fatto esplodere, e ora vivremo per uccidervi”, si legge in alcune scritte sui muri – accompagnate dal disegno stilizzato di una impiccagione – per il centro della città, sventrata dalla detonazione e poi puntellata da sporadici atti di vandalismo da parte di una frazione di manifestanti.

Sono frasi dal valore ovviamente simbolico – ad oggi non si registra alcuna progettualità “estremista” o violentemente eversiva, nella eterogenea piazza – che però raccontano bene il “salto di qualità” nell’umore dei manifestanti: lo stesso salto di qualità che farebbe chi passa dall’accusare qualcuno di corruzione, negligenza, disonestà, all’accusarlo anche di pericolosità fisica, di porre a rischio concreto, immediato, la vita dei cittadini.

Le proteste riesplose dopo la detonazione di 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio al porto della capitale hanno certamente accelerato e influenzato la decisione del premier Diab di dimettersi ma non devono essere sovrastimate, né isolate dal contesto in evoluzione nelle “stanze del potere”. Sono diversi gli osservatori locali che legano questa decisione di Diab anche alla recente visita a Beirut del presidente francese Emmanuel Macron – accolto e guidato tra le macerie dalla medio-borghesia cristiana, urbanizzata, francofona e cosmopolita dei quartieri di Gemmayze e Mar Mikhail, i più colpiti dall’esplosione -, il quale ha pubblicamente annunciato di aver proposto alle autorità libanesi “un nuovo contratto politico”. Senza specificare oltre.

Da un punto di vista procedurale, ora in Libano torna indietro di alcuni mesi. Premesso che Diab ha già accettato la richiesta del presidente Aoun – che a sua volta non ha potuto far altro che accogliere le sue dimissioni – di servire in qualità di premier reggente fino alla formazione di un altro governo, lo scenario che va profilandosi ricorda per certi versi quello di dicembre scorso: la ripresa di una negoziazione frontale tra la piazza e le autorità. Con la differenza, però, che le condizioni del paese sono enormemente peggiorate, e che l’esplosione ha reso tutte le istanze più urgenti, più radicali, più furiose.

Almeno sulla carta, oggi i manifestanti hanno maggiore potere negoziale, e certamente una parte di essi ha molto meno da perdere. Tuttavia, qualunque governo venga formato da qui ai prossimi mesi – non è escluso che Diab mantenga la sua posizione amministrativa per diverse settimane, in un Paese che ha avuto qualcosa come 80 governi in 75 anni -, esso non potrà che passare per l’approvazione del Parlamento, o più prosaicamente della maggioranza al suo interno. Sullo sfondo, emergono gli opportunismi politici dei partiti che oggi sono all’opposizione, come il già citato “Mustaqbal” di Hariri (a cui si aggiunge la discreta ascesa del fratello Bahaa, in competizione con esso), il partito socialista progressista druso di Walid Jumblatt o le formazioni della destra nazionalista cristiana, cioè le Forze Libanesi di Samir Geagea e i Falangisti della famiglia Gemayel. Tutti “parte del problema”. La piazza in ultima istanza chiede la fine della ta’ifiya, del confessionalismo, quindi dei partiti confessionali e del clientelismo a loro connaturato e di cui sono piena espressione. Consci destinatari di una protesta totale, sistemica, ma anche pronti a cavalcare il diffuso malcontento che oggi si concentra contro i partiti “di governo”.

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