A tre mesi dalla requisitoria con la richiesta di 8 anni da parte dei pm Fabio De Pasquale, la parola è passata alla difesa di Claudio Descalzi. L’amministratore delegato è imputato nel processo Eni-Nigeria. Cuore del processo, in cui sono imputate 13 persone, sono le presunte mazzette versate dal Cane a sei zampe e da Shell per acquisire un giacimento offshore in Nigeria nel 2011. Per l’accusa la presunta maxi tangente è quantificabile da 1 miliardo e 92 milioni di dollari ed è stata versata dalla compagnia petrolifera italiana e da Shell per i diritti di esplorazione del blocco Opl245 in Nigeria.

Da parte sua, però, Paola Severino, avvocata dell’amministratore delegato del gruppo di San Donato Milanese, sostiene non ci sia la prova dell’accordo corruttivo. Per questo motivo ha chiesto ai giudici di assolvere Descalzi “perché il fatto non sussiste“. Descalzi, secondo il ritratto tracciato in aula da Severino, è “un uomo, un alto dirigente che ha sempre e da sempre avuto un solo obiettivo: avere risultati vantaggiosi, per uno dei più grandi gruppi italiani, nel pieno rispetto delle regole. Chiedo la sua assoluzione con la formula più ampia possibile“. Il legale di Descalzi parla di “una ritrosia a collocare con precisione i fatti nel tempo e dello spazio che ha contraddistinto l’approccio della procura sin dalla formulazione del capo di imputazione, che non individua con la dovuta precisione quali soggetti, quando e dove avrebbero concluso il pactum sceleris“.

Per la difesa non c’è prova dell’accordo corruttivo, lo stesso capo di imputazione non individuerebbe i soggetti che lo avrebbero compiuto, mettendo in evidenza “solo le suggestioni affrontate dalla procura”. Severino ha sostenuto che l’ad (all’epoca direttore generale della divisione Exploration e production dell’azienda) ha sempre avuto un “comportamento cauto e scrupoloso” incompatibile con la ricostruzione fornita dall’accusa. Per la difesa di Descalzi, l’accusa non è riuscita a dimostrare il seme del reato stesso “cioè l’accordo corruttivo e l’accusa consapevole di non avere la prova dell’accordo ha cercato di prospettare una serie di circostanze suggestive che non hanno neanche il rango di indizio“. Quanto al grande accusatore Vincenzo Armanna, l’avvocato Severino sostiene che le sue parole non sia dettato “non per amore di verità”, ma da un “modello di verosimiglianza”: parte da un dato vero ma lo modifica, “in modo da rendere astrattamente credibile” il suo racconto, ma “la mole di documenti prima ancora delle testimonianze lo demoliscono” conclude il difensore. La prossima udienza è stata fissata per il prossimo 28 ottobre, il verdetto potrebbe arrivare a gennaio.

A processo insieme a Descalzi e l’ex ad Paolo Scaroni, infatti, sono finite altre 11 persone. Per Armanna, Antonio Pagano e per l’intermediario Luigi Bisignani i pm hanno sollecitato una condanna a 6 anni e 8 mesi. Sette anni e 4 mesi sono stati chiesti per l’allora responsabile operativo Eni nell’area dell’Africa sub-sahariana Roberto Casula, mentre la pena più alta andrebbe all’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete (10 anni). Fanno parte del lungo elenco anche altri due presunti mediatori: Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev: per entrambi si richiede la condanna a 6 anni di reclusione. Sul versante Shell sono stati proposti 7 anni e 4 mesi per Malcom Brinded, ai tempi presidente di Shell Foundation, e per gli altri tre ex dirigenti Peter Robinson, Guy Colgate e John Coplestone, 6 anni e 8 mesi di reclusione. Per i pm tutti meritano l’aggravante della transnazionalità con il riconoscimento delle attenuanti generiche, tranne che per Bisignani ed Etete.

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