Un miliardo e 92 milioni di dollari di danni, come provvisionale. È quanto richiesto dal Governo nigeriano, che è parte civile, a Eni nel processo per le presunte tangenti in corso a Milano. La richiesta è stata formulata dall’avvocato Lucio Lucia, che rappresenta la Repubblica Federale della Nigeria, per il quale la “condotta contestata per la quale è stata raggiunta la prova” ha provocato un danno patrimoniale a cui dovrà essere aggiunto un “grave” danno di immagine e un danno morale.

Secondo l’avvocato, Eni e Shell sarebbero state “pienamente consapevoli” che i soldi versati dalle due compagnie petrolifere per ottenere l’aggiudicazione dei diritti di esplorazione di Opl 245, sarebbero stati versati all’ex ministro Dan Etete, ritenuto il vero titolare di Malabu, la società che deteneva gli stessi diritti, e che questi avrebbe girato una parte della somma ai pubblici ufficiali nigeriani.

“Il reato – si legge nella memoria depositata dal legale di parte civile – ha alterato la corretta gestione degli affari pubblici in Nigeria, incidendo gravemente sullo sviluppo economico” e ha anche “alterato le condizioni economiche di mercato in materia di concorrenza, che è del resto l’interesse protetto dalla norma che punisce la corruzione internazionale”.

Il Governo nigeriano si è associata anche alla richiesta di confisca avanzata dalla procura di Milano a tutti gli imputati, tra cui l’ad di Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, le due società e 4 ex manager di Shell, nonché l’ex ministro Etete. Di fronte alla maxi-richiesta di danno patrimoniale e di immagine, l’azienda ha espresso “grande sconcerto”.

La compagnia petrolifera italiana, esprimendo la sua posizione dopo l’udienza, manifesta sconcerto “sul fatto che si continuino a portare come supporto dell’accusa di corruzione a suo carico flussi di denaro che si sono sviluppati soltanto dopo il pagamento della licenza da parte della società”, che “è stato eseguito direttamente al Governo nigeriano, in maniera chiara, lineare e trasparente sul conto di una banca nota a livello internazionale”.

Sempre mercoledì, come riporta il Corriere della Sera, Eni ha dovuto fare i conti anche con la notifica della richiesta di stop per due anni alla produzione di petrolio nei pozzi “Marine VI e VII” in Congo, giacimenti valutati 400 milioni. Secondo la procura di Milano, che ha richiesto la misura interdittiva o in subordine il commissariamento, i modelli organizzativi del Cane a Sei Zampe non riuscirono a impedire che nel 2015 la società, attraverso l’allora capo nell’area subsahariana Roberto Casula, finisse in una “corruzione internazionale” all’interno del quadro delle direttive congolesi che imponevano partner locali ai gruppi stranieri operanti nel Paese africano. La gip Sofia Fioretta ha notificato mercoledì alla società la richiesta della procura.

Eni, prendendo atto della richiesta e ribadendo di non essere coinvolta in “attività corrutive” legate alle licenze congolesi citate, “la considera totalmente infondata” e, come spiega un portavoce, la “tempestività di tale richiesta è soggetta alla pronuncia della Corte Costituzionale in merito alla legittimità della normativa Covid sull’allungamento dei termini, altrimenti già estinti per prescrizione”. E sottolinea che la fondatezza della richiesta – considerata “improcedibile” dalla società – non sarà avviata il 21 poiché è “già stata dichiarata sospesa dal gip la relativa udienza in attesa delle decisioni della Consulta” sulla legittimità.

AGGIORNAMENTO
L’Ing. Roberto Casula è stato assolto con sentenza passata in giudicato nel processo c.d. OLP 245 e la sua posizione è stata archiviata per quel che riguarda il reato di corruzione internazionale per la c.d. vicenda congolese.

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