Sono condanne pesanti quelle richieste dall’accusa al termine del processo Eni sulle presunte mazzette versate dal Cane a sei zampe e da Shell per acquisire un giacimento offshore in Nigeria nel 2011. Secondo il procuratore aggiunto Fabio De pasquale, l’attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi (all’epoca direttore generale della divisione Exploration e production dell’azienda) e l’ex ad Paolo Scaroni devono essere condannati a 8 anni di reclusione per il loro ruolo nella vicenda. La procura di Milano ha chiesto anche di sanzionare le due compagnie petrolifere con 900mila euro ciascuna e di confiscare un miliardo e 92 milioni di dollari (in totale si superano quindi i 2,1 miliardi di euro). Un numero non casuale, visto che si tratta della presunta tangente versata a politici nigeriani per ottenere “senza gara” i diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl245. La stessa cifra è stata chiesta in solido agli altri imputati, fra cui compaiono anche Luigi Bisignani e manager come Vincenzo Armanna, poi diventato un grande accusatore della società.

A processo insieme a Descalzi e Scaroni, infatti, sono finite altre 11 persone. Per Armanna, Pagano e per l’intermediario Luigi Bisignani i pm hanno sollecitato una condanna a 6 anni e 8 mesi. 7 anni e 4 mesi per l’allora responsabile operativo Eni nell’area dell’Africa sub-sahariana Roberto Casula, mentre la pena più alta andrebbe all’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete (10 anni). Fanno parte del lungo elenco anche altri due presunti mediatori: Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev: per entrambi si richiede la condanna a 6 anni di reclusione. Sul versante Shell sono stati proposti 7 anni e 4 mesi per Malcom Brinded, ai tempi presidente di Shell Foundation, e per gli altri tre ex dirigenti Peter Robinson, Guy Colgate e John Coplestone, 6 anni e 8 mesi di reclusione. Per i pm tutti meritano l’aggravante della transnazionalità con il riconoscimento delle attenuanti generiche, tranne che per Bisignani ed Etete.

Al centro del processo c’è la presunta mazzetta pagata da Eni e Shell per mettere le mani su Opl245. L’ipotesi dei pm è che la maggior parte dei soldi sia stata destinata all’ex ministro nigeriano Etete e ad altri politici e funzionari del Paese. Tutto grazie al ruolo di due intermediari: Emeka Obi, già condannato in primo grado nel 2018 a quattro anni con rito abbreviato, e Gianfranco Falcioni, entrambi ritenuti figure chiave nella vicenda. In oltre 12 ore di requisitoria (iniziata il 3 luglio e conclusa oggi) il magistrato De Pasquale ha citato uno documento del 23 settembre 2010 di provenienza Shell in “cui viene messa nero su bianco la formula della corruzione” e cioè di “una somma sulla quale devono essere d’accordo tutti i players. Deve essere accettabile da tutti i players di Abuja, – ha proseguito il pm – ossia i politici nigeriani”.

La società del Cane a sei zampe finora ha sempre negato, definendo “inconsistenti” gli argomenti dell’accusa e sostenendo che non era “tenuta a conoscere l’eventuale destinazione dei fondi”. Concetto ribadito anche oggi attraverso un comunicato. “Eni considera prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna avanzate dal Pubblico ministero nell’ambito del processo Nigeria ai danni della società, dei suoi attuale ed ex Amministratori delegati, e dei manager coinvolti nel procedimento”, si legge. “Nel corso della requisitoria” la procura “ha ribadito la stessa narrativa della fase di indagini, basata su suggestioni e deduzioni, ignorando che sia i testimoni, sia la documentazione emersa hanno smentito, in due anni di processo e oltre quaranta udienze, le tesi accusatorie”. L’ultima parola ora spetta al giudice.

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