C’è un fenomeno interessante che da alcune settimane ha preso piede in Florida. Diversi social – Facebook, Instagram, le chat di WhatsApp e di Telegram – ma anche radio e TV sono invasi da teorie cospirazioniste che riguardano il candidato democratico alla presidenza, Joe Biden. Tra queste, la teoria secondo cui Biden consegnerebbe l’America “a ebrei e neri”; o quella per cui Biden ha “un problema di pedofilia”. Su Facebook, un pastore portoricano, Melvin Moya, ha fatto circolare un video dal titolo “Signs of pedophilia”, in cui rivela come Biden avrebbe, in diverse occasioni pubbliche, toccato in modo inappropriato delle bambine. Su diversi gruppi di WhatsApp e Facebook gira la notizia che il candidato democratico sarebbe appoggiato dal presidente venezuelano Nicolás Maduro e dal partito comunista statunitense. E su Radio Caracol, il 22 agosto, è andato in onda un programma pagato da un imprenditore locale, in cui si spiega che Biden vuole trasformare gli Stati Uniti in una “dittatura di ebrei e neri”. C’è un elemento comune nella sfilza di attacchi a Biden. Appaiono tutti sui media utilizzati dalla comunità ispanica della Florida.

“Non ho mai visto questo livello di disinformazione, di teorie complottiste e di bugie”, ha commentato un’attivista e consulente democratica, Evelyn Pérez-Verdia, che accusa i repubblicani di essere dietro agli attacchi. I repubblicani rispondono negando – e a loro volta accusano i democratici di “etichettare come disinformazione ogni opinione o articolo su cui sono in disaccordo”. Sia o non sia organizzata, ci sia una “mente” che la coordina oppure no, la campagna anti-Biden sta comunque raggiungendo gli obiettivi sperati. In Florida, secondo uno studio di Equis Research, Biden conquisterebbe la maggioranza dell’elettorato ispanico: 53 per cento, contro il 37 per cento per Donald Trump. La cattiva notizia, per i democratici, è che l’attuale candidato è 11 punti indietro nel voto latino rispetto a Hillary Clinton nel 2016. L’emorragia di voti ispanici è particolarmente forte nella Miami-Dade County, dove i repubblicani hanno riempito le loro liste di candidati di origine cubana e conducono una campagna di spot martellanti sulle tv più seguite dal pubblico di lingua spagnola.

Il caso della Florida è solo un esempio di quanto il voto degli ispanici sia sempre più fondamentale nella sfida presidenziale del prossimo 3 novembre. E di come i democratici, che per anni hanno dato per scontato questo voto, debbano oggi lavorare – e lavorare duro – per conquistarne la fetta più ampia possibile. Una considerazione, da questo punto di vista è prioritaria. Nonostante si parli spesso di un “blocco di voto ispanico”, un blocco di voto ispanico non esiste. Il mondo ispanico degli Stati Uniti – che rappresenta circa il 13 per cento dell’elettorato complessivo – è estremamente vario. Anzitutto, mostrano molte ricerche, gli ispanici tendono a definirsi prima per identità nazionale e solo dopo per appartenenza etnica. E quindi i cubani, raccolti proprio attorno a Miami, sono un gruppo molto diverso per storia e attitudini politiche rispetto alla popolazione originaria del Messico, e questa è a sua volta differente dai portoricani, da chi è arrivato dalla Colombia, dall’Honduras, dal Salvador o dal Guatemala.

Gli ispanici del sud degli Stati Uniti hanno poi orientamenti di voto spesso molto diversi da quelli del nord-est o del sud-ovest. Sono diverse le attitudini e la cultura sulla base del tempo di permanenza negli Stati Uniti (gli ispanici arrivati da più di due generazioni tendono a votare repubblicano in percentuali più alte rispetto a quelli di prima generazione). Non sempre i temi dell’immigrazione sono in testa alle loro preoccupazioni, anzi. Un recente sondaggio del Pew Research Center rivela che l’economia è la prima ragione di voto per l’80 per cento degli ispanici. Come succede per altri gruppi etnici, anche tra gli ispanici le donne tendono a votare democratico più degli uomini. E l’elettorato ispanico non è ormai soltanto cattolico: i numeri di latinos che diventano protestanti e cristiani evangelici è in costante aumento.

È questa varietà, che sfida ogni pregiudizio o facile presupposto, a rendere difficile il compito dei democratici. Le cose certe sono al momento poche. Tra queste, che Trump conquistò nel 2016 il 28 per cento di elettorato ispanico, nonostante un linguaggio spesso razzista che gli faceva dire che “il Messico invia i suoi stupratori negli Stati Uniti”. Quest’anno, potrebbe andargli ancora meglio, proprio per le ragioni esposte sopra. Prendiamo la questione religiosa. Gli evangelici, in tutti gli Stati Uniti, hanno fatto di Trump il loro beniamino. La prossima nomina della giudice alla Corte Suprema – che il presidente vuole ferocemente anti-aborto – è destinata a cementare ulteriormente il legame. Gli ispanici di fede evangelica non fanno, da questo punto di vista, eccezione. Un recente sondaggio della Texas Hispanic Policy Fundation mostra che due ispanici evangelici su tre, in Texas, voteranno per Trump. Il presidente repubblicano è destinato a raccogliere il voto anche di una parte consistente di coloro che vedono nell’economia la questione più importante. Nella fase pre-pandemia, la disoccupazione tra gli ispanici era ai livelli più bassi da decenni, e gli stipendi in rapida ascesa. Una parte del mondo ispanico potrebbe valutare che Trump abbia comunque fatto un buon lavoro e che, passata la crisi sanitaria, l’economia sotto il suo governo tornerà a fiorire.

C’è poi un altro elemento da non trascurare. Trump ormai da mesi cerca di dipingere il partito democratico come un’accolita di radicali, e Joe Biden come un anziano leader ostaggio di pericolosi socialisti che stanno mettendo a ferro e fuoco le strade d’America. L’argomento potrebbe aver successo non soltanto tra i cubano-americani, ma anche nelle comunità di ispanici che non hanno gradito lo stile di governo di Hugo Chavez, Nicolas Maduro, Daniel Ortega. “Joe Biden è il cavallo di Troia del socialismo” è l’accusa che si sente più spesso negli spot in lingua spagnola pagati dai repubblicani in Florida – dove tra l’altro Trump ha iniziato a fare campagna elettorale in tv ben prima di Biden. A questo va aggiunto un altro elemento. Non è sfuggito ai più che, negli ultimi mesi, Trump abbia molto ammorbidito la sua retorica anti-immigrazione. Sono altri i temi che il presidente ora privilegia: la sicurezza messa a rischio da truppe di anarchici al soldo dei democratici; il ritorno alla prosperità intaccata dall’emergenza coronavirus; i valori di fede che lui, il presidente, continua a difendere con le sue nomine alla Corte Suprema e tra i giudici federali. Come si può notare, argomenti su cui raccogliere il consenso degli ispanici, rassicurati dal dissolversi degli accenti più razzisti.

Per concludere. I democratici, con ogni probabilità, conquisteranno ancora una volta la maggioranza del voto latino. Il problema, per loro, è quanta percentuale di questo voto conquisteranno. Trump, che nel 2016 ha raccolto il 28 per cento di elettorato ispanico, sa di poter fare molto meglio. Ronald Reagan, nel 1984, ne raccolse il 40 per cento; stessa cosa fece George W. Bush nel 2004. Più voti Trump riesce a strappare, più difficile diventa per Biden vincere negli Stati dove gli ispanici sono numerosi e dove l’elezione si giocherà sul filo di percentuali sottilissime: la Florida, appunto, e poi Arizona, Texas, Nevada, Colorado. La battaglia sul voto degli ispanici d’America è dunque una delle vere poste in gioco di queste elezioni. Trascurarla, per i democratici, potrebbe essere molto pericoloso.

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