Il 19esimo anniversario dell’attentato alle Torri gemelle è stata l’occasione per fare un punto sulle rivalità all’interno della galassia jihadista e prevedere possibili scenari geopolitici. Il Medio Oriente attualmente non gode più di una centralità nelle strategie terroristiche delle due grandi organizzazioni jihadiste. In Siria, Al-Qaeda – rappresentata dalla sua costola Hurras al-Din non è riuscita a farsi strada a causa delle rivalità jihadiste e per via della sorveglianza sui funzionari di Al-Qaeda da parte della coalizione guidata dagli Usa. Hurras al-Din è inattiva da oltre due mesi.

Non molto diversa la situazione in Yemen dove Al-Qaeda nella penisola arabica (Aqap) – era una volta molto temuta ma quest’anno ha subito una serie di colpi che ne hanno deteriorato l’immagine e il potere. Aqap ha perso il suo leader in un attacco con droni statunitensi a fine gennaio e recentemente ha perso la sua roccaforte nella provincia centrale di Bayda per mano dei ribelli Houthi.

Diversa la situazione in Africa dove restano saldi la Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim) e soprattutto Al Shabaab. La prima incentrata sul Mali, che opera anche in Burkina Faso e Niger, istituita nel marzo 2017. Si tratta di una federazione di gruppi jihadisti filo-qaedisti guidata dal carismatico Iyad ag Ghaly. La seconda, Al-Shabaab – un affiliato di Al-Qaeda in Somalia, specializzato in attentati e soprattutto rapimenti.

Secondo funzionari dell’intelligence Usa e di militari dell’antiterrorismo, l’organizzazione Al-Shabaab starebbe per compiere un salto di qualità perché in procinto di progettare un attentato in stile 11 settembre per colpire l’America e i suoi interessi in Africa e negli stessi Stati Uniti.

E veniamo al leader di Al Qaeda, Al Zawahiri, su cui attualmente c’è una taglia di 25 milioni di dollari. Zawahiri è ormai vecchio e si ripete in discorsi complessi e tortuosi. Rispetto a Bin Laden, Zawahiri è moderato nella sua strategia operativa e poco attraente per le coorti più giovani di aspiranti jihadisti.

Diversa la situazione dello Stato Islamico, che seppur privo di un leader carismatico, gode in Africa di una organizzazione meticolosa. Nel marzo 2015, il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, aveva prestato giuramento ad Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato Islamico. Da allora il nome Boko Haram scomparve, cedendo il posto all’Iswap oggi definito un protoesercito. Shekau fu poi rimpiazzato dalla testa dell’Iswap che scommise le sue carte su Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf.

Shekau continua oggi ad operare vicino alla foresta di Sambisa con una fazione di 1.500 combattenti, sotto il nome internazionale di Boko Haram o con quello locale di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l-Jihad (Jas), ma è spesso citato come seconda branca dell’Iswap, avendo rigettato il decreto dell’Isis.

Il gruppo salafita-jihadista affiliato allo Stato Islamico, Wilayat Sinai (Ws) è invece la principale minaccia alla sicurezza nazionale egiziana. Dal 2013, il gruppo ha compiuto quasi 2000 attentati, causando oltre un migliaio di vittime solo tra i militari. Infatti, il 1° maggio 2020 un attacco contro un convoglio dell’esercito avvenuto a Bir al-Abd, nel Sinai del Nord, ha ucciso 14 soldati. Varie fonti stimano gli affiliati africani all’organizzazione intorno ai 6.000 uomini.

C’è poi l’Islamic State in Greater Sahara (Isgs) nato a metà del 2015, quando Adnan Abu Walid al-Sahraoui, dirigente degli Almoravidi qaedisti, ha prestato giuramento di fedeltà al presunto califfo Al Baghdadi. Un atto sconfessato e rigettato dal capo degli Almoravidi che ha defenestrato Al-Sahraoui e mantenuto la linea qaedista. A quel punto Al-Sahraoui e altri almoravidi filo-Daesh hanno abiurato per formare lo Stato Islamico in Mali, poi denominato Isgs.

Nell’ottobre 2017 l’Isis ha cominciato a integrare le azioni dell’Isgs nella sua propaganda. La forza dello Stato Islamico nel Grande Sahara è di 425 jihadisti. Il tutto sotto la regia dell’Isis che rilancia l’idea del califfato in salsa africana.

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