La questione dei diritti sindacali dei militari approderà presto al Senato, dove difficilmente ci saranno dei colpi di scena. A più di due anni dalla tardiva sentenza n. 120/2018 della Corte costituzionale, la Camera dei deputati ha approvato a luglio un testo che rischia di vanificare la sindacalizzazione, creando i presupposti per la proliferazione di dannose corporazioni e di inutili sindacati di comodo. Prive di un reale potere contrattuale, isolate dalle centrali sindacali e frammentate in una miriade di sigle, le “associazioni professionali tra militari a carattere sindacale” potranno agevolmente discutere dei “buoni pasto” e fare convenzioni con i gommisti.

È apparso scorretto proprio l’approccio dei parlamentari che hanno confezionato il testo. Lo scopo non è stato quello di estendere finalmente la libertà sindacale ai militari, con limiti da giustificare per mezzo di argomentazioni ferree, ma quello malcelato di annacquare la sindacalizzazione col pretesto della evanescente “specificità” delle Forze armate. “I diritti fondamentali – insegnava Stefano Rodotà – si presentano inscalfibili e indisponibili, affidati a un’area di indecidibilità”. Alla luce della Costituzione repubblicana del 1948, i diritti fondamentali dei lavoratori sono inviolabili e ogni loro limitazione è possibile solo sulla base di motivazioni inconfutabili.

È davvero un peccato che forze politiche che si professano “progressiste” non abbiano piuttosto colto l’occasione per affrontare il tema della strana commistione, che persiste nel nostro Paese, tra il comparto Difesa e il comparto Sicurezza. In uno Stato democratico, l’esercito e la polizia dovrebbero restare ben distinti. Né sembra accettabile che regole identiche possano valere sia per il fante che per il poliziotto, che fanno naturalmente due lavori molto diversi. I soldati si occupano di difesa militare, mentre i poliziotti sono chiamati a contrastare l’illegalità e a mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica. In un regime democratico, dovrebbe funzionare così.

Eppure, per esempio, da noi continua a essere finanziata dal lontano 2008 la famosa operazione “Strade sicure”, tanto che ormai ci siamo abituati ad avere i soldati per strada. Secondo taluni, questo giova alla “sicurezza percepita”. Al contrario io mi sento più sicuro quando so di essere protetto da forze di polizia ben addestrate e ben equipaggiate. L’Esercito nelle piazze mi ricorda invece la Sicilia dopo le stragi mafiose o la Hong Kong di oggi: l’analogia non è affatto rassicurante.

Altro terreno di confronto dovrebbe essere la prassi consolidata di favorire l’ingresso nelle forze dell’ordine, tramite appositi concorsi, di ex militari provenienti dall’Esercito. Michele Di Giorgio, nel saggio “Per una polizia nuova” (Viella, 2019), riporta la preoccupazione di alcuni esponenti del movimento per la riforma della Pubblica Sicurezza – quelli che negli anni Settanta lottarono per «un corpo di polizia civile più vicino al cittadino” – che interpretano il “travaso” come una “militarizzazione camuffata”. “Oggi siamo tornati molto indietro – dice l’ex poliziotto Paolo Miggiano – se per entrare in Polizia devi prima passare dall’Afghanistan, dall’Iraq, dai conflitti”. Anche il procuratore generale militare Marco De Paolis ha espresso un pensiero simile a proposito dei fatti della Caserma Levante di Piacenza: “Non dimentichiamo che molti carabinieri – dice in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera – provengono dalle forze armate. Questo non sempre è positivo perché spesso non ricevono la tradizionale formazione delle forze di polizia”.

Ebbene, se è chiaro che la formazione dell’agente di polizia (o del carabiniere) deve essere molto differente da quella dell’artigliere, sarà perlomeno necessario verificare che l’addestramento successivo sia pienamente adeguato (per le attività svolte e la durata dei corsi) e cioè idoneo a trasformare il soldato in poliziotto.

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