I fondi pensione negoziali, cioè quelli riservati ai lavoratori di uno specifico settore e amministrati dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, negli ultimi dieci anni hanno reso in media più del Tfr lasciato in azienda. E durante l’emergenza coronavirus hanno perso meno terreno rispetto ai fondi aperti, istituti da una compagnia di assicurazione o da una banca. E’ quello che risulta dall’ultima indagine della Covip, l’authority di settore, che ha presentato i dati aggiornati a fine giugno sull’andamento degli strumenti di previdenza complementare. Cioè quella con cui il lavoratore può costruirsi una pensione aggiuntiva che si somma a quella erogata dall’Inps o dalle casse previdenziali di categoria e che viene alimentata destinandovi il Trattamento di fine rapporto.

Nel secondo trimestre del 2020, con la ripresa dei mercati finanziari dai tonfi dei primi tre mesi, i risultati delle forme di previdenza complementare sono risaliti, pur continuando in media a rimanere negativi rispetto alla fine del 2019. Così nel corso dei primi sei mesi, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, i fondi negoziali hanno perso l’1,1 per cento mentre i fondi aperti e i Piani pensionistici individuali hanno perso rispettivamente il 2,3 e il 6,5 (+0,7% i Pip di ramo I). Il Tfr si è invece rivalutato di 0,6%.

Se si guarda però a un orizzonte di dieci anni (da inizio 2010 a fine 2019,) il rendimento medio annuo composto è stato pari al 3,6 per cento per i fondi negoziali, 3,8 per i fondi aperti e per i Pip di ramo III e 2,6 per cento per le gestioni di ramo I. Aggiungendo ai dieci anni gli ultimi sei mesi, i rendimenti medi annui composti scendono al 3,3 per cento per i fondi negoziali, al 3,4 per i fondi aperti e al 3 per i Pip di ramo III mentre restano pari al 2,5 per cento i prodotti di ramo I. Per entrambi i periodi, la rivalutazione del Tfr è risultata pari al 2 per cento annuo.

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