“Bisogna trovare il modo di far fare la quarantena ai bangladesi che arrivano a Fiumicino. Il rischio è un’epidemia di ritorno”. Alessio D’Amato, assessore alla sanità del Lazio, è molto preoccupato. E con lui tutta l’unità di crisi regionale che presiede e di cui fanno parte emissari dell’Istituto Spallanzani e dell’Istituto superiore di sanità. La gran parte dei casi di positività al Sars-Cov-2 registrati a Roma da un mese a questa parte ha come link epidemiologico persone in arrivo dal Bangladesh, dove l’epidemia Covid è ancora nella sua fase acuta. E proprio a Roma si trova la più importante comunità bangladese in Italia, con oltre 36mila persone, di cui quasi la metà sono “stagionali”, dei “pendolari” che si appoggiano a parenti e connazionali, spesso stipati in posti letto affittati da italiani al limite della regolarità, per lavorare 3-4 mesi all’anno soprattutto in ristoranti, alberghi e stabilimenti balneari.

Altri bangladesi positivi ricoverati all’Umberto I – Dopo i focolai dei due bistrot sul litorale romano, scatenati proprio da due ragazzi arrivati pochi giorni prima dal Paese asiatico, ancora ieri al Policlinico Umberto I di Roma sono stati ricoverate altre tre persone arrivate da Dacca, tra cui un ragazzo trovato positivo solo grazie a un controllo di routine in seguito a un incidente stradale. Inoltre è stato trovato positivo un bimbo di 10 mesi rientrato con la famiglia dal Pakistan. “Dobbiamo stringere i controlli sulle provenienze dal Bangladesh”, avrebbe detto D’Amato in un colloquio telefonico avvenuto nella mattinata di venerdì con Marco Troncone, amministratore delegato di Aeroporti di Roma, la società che gestisce lo scalo aereo internazionale di Fiumicino. Qui durante la settimana arrivano tre voli dalla Capitale bangladese e tutti con scalo a Doha o a Istanbul. L’idea è quella di intercettare queste persone in aeroporto e portarli direttamente in strutture alberghiere messe a disposizione nei pressi dello scalo romano, un po’ come accadeva con i crocieristi “incastrati” in città durante il lockdown.

Tamponi a tappeto alla comunità bangladese in Italia: “Favorevoli a restrizioni” – Anche perché, come detto, l’emergenza preoccupa in primis gli oltre 20mila bangladesi “stanziali” che si trovano nella Capitale, impiegati soprattutto nella ristorazione e nel commercio al dettaglio (ambulanti e minimarket). La Asl Roma 2, competente per il quadrante sud-est della città, dove vivono la gran parte dei bangladesi romani, ha invitato i componenti della comunità a effettuare tamponi a tappeto, a partire da lunedì 6 luglio, presso il drive-in di via Nicolò Forteguerri, in zona Largo Preneste. Si parla di una comunità un po’ chiusa ma che punta molto sul mutuo soccorso. E dunque si espone direttamente al contagio. “Chi cerca di arrivare dal Bangladesh in Italia oggi lo fa per due motivi – spiega Mohamed Taifur Rahman Shah, presidente dell’Associazione Italbangla – Il primo è per tornare sul luogo di lavoro. Il secondo è più preoccupante ed è collegato alla diffusione del coronavirus nel loro Paese, che ha toccato i 140mila casi”. Una specie di fuga di massa, in quanto “il governo del Bangladesh è irresponsabile e non riesce a dare risposte. Non ci sono tutele per la salute, cure mediche, è il far west”. Shah si dice poi “estremamente favorevole a controlli più rigidi sugli arrivi dal Bangladesh”. E dunque anche alla quarantena forzata.

Il problema degli arrivi attraverso gli scali – In questa fase della gestione dell’emergenza coronavirus, a Roma diventa dirimente risolvere il problema degli arrivi al ‘Da Vinci’. Anche perché non c’è solo il Bangladesh a preoccupare, ma anche arrivi più “strutturati” come quelli dal Brasile e dagli Stati Uniti, altri Paesi ancora duramente colpiti dal Covid. Nella giornata di mercoledì, Ilfattoquotidiano.it ha intercettato alcuni passeggeri provenienti da San Paolo e da Miami, attraverso scali effettuati rispettivamente a Lisbona e a Francoforte. Il cambio di aereo e – nel secondo caso – di compagnia, ha però azzerato in qualche modo l’obbligo di effettuare la quarantena di legge, in quanto formalmente la partenza è avvenuta in un paese dell’Unione Europea. Starebbe dunque alla coscienza del singolo rispettare i 15 giorni di isolamento. “Ma certo che non farò la quarantena”, ci dice chiaramente Franco, 52 anni, con moglie brasiliana al seguito: “Se avremo dei sintomi li comunicheremo al medico. Questa storia del lockdown è una farsa, Bolsonaro ha salvato l’economia del Paese. I morti? Ce li abbiamo avuti anche noi”. La pensano diversamente Maurizio e Laura, che con i loro figli hanno trascorso 20 giorni in Florida: “Siamo partiti per non perdere i soldi del viaggio – raccontano –, ma ora faremo la quarantena. Non vogliamo fare danni”.

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