La mutazione genetica che lo scacchiere libico ha avuto nelle ultime settimane dovrebbe rappresentare, in prospettiva, la base su cui poggiare il nuovo schema di gestione “alla siriana” del regno che fu di Gheddafi (al netto di sempre possibili colpi di scena).

L’accelerazione imposta dalla Turchia dallo scorso settembre ad oggi, figlia di una penetrazione militare anticipata dalla strategia neo ottomana di Erdogan, ha ottenuto il risultato di consolidare il ruolo di Ankara come nuovo player su Tripoli e Sirte, disinnescando le mire del generale Haftar e destando Washington dal torpore in cui era caduta sul punto.

Il governo riconosciuto dall’Onu di Al-Serraj, più volte tra il 2018 e il 2019, aveva lasciato intendere di aspettarsi una mossa risolutrice, ma la stessa Roma era rimasta sorda dinanzi alle reiterate richieste. La conferenza internazionale siciliana, al pari del recente meeting di Berlino, hanno avuto solo un impatto mediatico ma non risultati concreti: segno che la matassa libica non poteva essere risolta con tavoli e proponimenti. La soluzione, per ora, si ritrova nell’azione che c’è stata, a tenaglia, di Turchia e Russia.

Di contro, conscio delle difficoltà che il dossier energetico nel Mediterraneo orientale impone alla smania turca, Erdogan ha preferito volgere lo sguardo alla Libia (dopo la Siria), visto e considerato che su Grecia e Cipro c’è un granitico blocco di alleanze formato da Usa, Francia, Israele, Egitto che non gli consente ulteriori spazi di manovra, al di là delle consuete provocazioni oltre le quali egli stesso sa di non poter andare.

Diverso lo scenario libico, dove l’accordo siglato tra Erdogan e Al-Serraj sulla delimitazione marittima mira alla realizzazione di un corridoio energetico. Mossa che ha avuto come effetto (non immediato) l’accordo siglato la scorsa settimana tra Roma e Atene per lo spazio marittimo adriatico. Ma se il Mediterraneo orientale è denso di pericoli e rischi per la Turchia, il golfo di Sirte rappresenta invece una straordinaria occasione politica ed economica. Lì vi sono vere proprie praterie dal momento che la balcanizzazione siriana è il nuovo metro di azione, sempre che Mosca lasci ancora filo all’alleato del Bosforo.

In questo contesto articolato e in evoluzione, al netto delle fondamenta geopolitiche citate, chi può recriminare non poco è l’Italia, sostituita dalla Turchia nella partita libica. Roma, non va dimenticato, ha un accordo con la Noc, il principale player petrolifero libico per il tramite di Eni: una contingenza che la Farnesina dovrebbe tenere maggiormente in considerazione, per una miriade di motivi, noti da tempo.

E’ di tutta evidenza come, ad oggi, la Turchia si trovi in una posizione di forza ma la presenza italiana in loco, con una squadra di sminatori, seppur di lieve impatto, potrebbe rappresentare davvero l’ultima occasione per l’Italia in Libia. Ma solo se gestita con sagacia tattica e con una rete di influenze ed equilibri ancora tutta da costruire.

@ReteLibia

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