Io voglio bene a Rino Gattuso. Ma davvero tanto. Per tre motivi. Innanzitutto, perché antropologicamente e culturalmente è molto più vicino a noi. In secondo luogo, perché mediaticamente è uno dei pochi Uomini (con la U maiuscola) del mondo del calcio ad avere uno stile di comunicazione diretto, mai banale e poco omologato. Ed infine, perché è competente, molto competente. E ieri lo ha dimostrato ancora una volta.

Ma caro amico mio, consentimi di considerarmi tale anche se non ci siamo mai conosciuti, il passaggio in finale non è solo merito tuo. Un importante contributo lo ha fornito anche il giovane Vincenzino, figlio di amici, che per la terza volta ha visto una partita con me in completo isolamento sociale. E ora ti spiego perché. La ritualità del tifoso, caro mister, non è assolutamente legata a canoni collettivi o di massa. È esclusivamente individualista e soggettiva, legata alla compresenza di elementi laici e religiosi ma con una predominanza della componente sacrale.

L’obiettivo, mi perdoni nostro Signore, è unico: determinare un risultato positivo per la squadra del cuore. Si prega la Madonna per un gol di Mertens, si invocano i santi per un risultato negativo dei rivali di sempre. I riti infatti sono beneauguranti, sollecitano il favore celeste a esprimersi nel sostegno alla squadra. Se poi incontri altri pazzi scatenati che seguono i tuoi cerimoniali profani, allora quei rituali producono anche un senso di appartenenza: con la ripetitività dei gesti e delle formule si attribuiscono a determinati individui forze e poteri senza alcun senso logico.

Ma forse, più di ogni altra cosa, forniscono il quadro in cui esprimere utopie e follie. Infatti dimmi tu, caro amico mio, se non è una alienazione sedersi, in occasione delle partite guardate in tv, sempre al solito posto e nella stessa posizione sul divano di casa solo perché per due volte consecutive il Napoli ha vinto con quella disposizione salottiera. Oppure, sempre per lo stesso motivo, costringere tutti gli altri componenti della famiglia e gli amici a cenare fuori solo perché in quelle due oramai famose partite vinte, tra l’altro serali, non erano in casa.

Le psicopatie si manifestano soprattutto quando il Napoli perde o sta perdendo. Dopo la rete di Eriksen, il giovane Vincenzino, impaurito dalla reazione poco urbana del sottoscritto, con una scusa banale voleva andare dai genitori ma è stato costretto a non muoversi da quel posto sul divano e a non fiatare per i restanti 93 minuti. Quasi un sequestro di persona. Paranoia, eccesso, assurdità? Forse sì, sicuramente genetica ed ereditaria. La responsabilità di questa folle e preoccupante passione, caro mister, è di quell’anima buona di mio padre che il 17 marzo è volato in cielo ed ora riposa in pace insieme alla tua cara sorella. Da lassù ci hanno dato una mano. E a loro dedichiamo la vittoria. Grazie di tutto mister, stavo solo delirando dopo tanta gioia. Il merito è tutto tuo.

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