Twitter ha appena chiuso 23750 account cinesi che il Governo di Pechino avrebbe usato per “attività coordinate e manipolatorie” finalizzate a diffondere posizioni favorevoli al regime e fake news sulle vicende politiche di Hong Kong. E ha adottato analogo provvedimento contro 7340 account super tifosi, sempre attraverso disinformazione, del Presidente turco Erdogan nonché contro 1152 account russi, rei di diffondere propaganda coordinata a favore di Vladimir Putin e del suo partito, Russia Unita.

Ci sono due modi per commentare la notizia. Il primo è il più semplice e il più popolare: complimentarsi con Twitter per l’iniziativa e invitare Twitter e gli altri social network a fare di più e con più costanza contro la disinformazione. Trasformare, insomma, iniziative di questo genere da eccezione a regola.

Il secondo è quello più complicato e impopolare: dire che non tocca a Twitter né agli altri giganti del web decidere se un account va chiuso o tenuto aperto per disinformazione o per qualsivoglia altra condotta illecita specie se relativa alla condivisione di informazioni, idee e opinioni. Come spesso accade, il secondo è quello corretto.

Twitter è, nella sostanza, probabilmente dalla parte giusta perché nessuno di noi può condividere l’idea che governi autoritari o il presidente di un grande paese come gli Stati Uniti utilizzino il web per promuovere, attraverso le menzogne, le proprie battaglie politiche inquinando il dibattito pubblico. Ma, al tempo stesso, Twitter è irrimediabilmente dalla parte sbagliata in fatto di forma, di metodo, di ruolo.

In democrazia non tocca e non può toccare a un soggetto privato – a prescindere da quanto siano nobili gli ideali sulla cui base agisce – decidere di silenziare qualcuno e consentire a qualcun altro di parlare o, il che non è diverso, di bollare qualcuno come bugiardo – anche se lo è per davvero – e non bollare anche qualcun altro, che pure, però, lo è, allo stesso modo. Così facendo Twitter entra a gamba tesa nell’agone politico nazionale e internazionale ma quel che è peggio amministra giustizia al posto dei Giudici e delle Autorità.

Quella che ha intrapreso – tra il plauso più o meno palese dei più – è una scorciatoia. Sta attuando il principio machiavellico del fine che giustifica i mezzi. Ma le scorciatoie in democrazia sono pericolose, sempre, anche quando sembrano andare nella direzione giusta e, anzi, ancora più di sempre perché questo abbassa le difese democratiche di ciascuno di noi. E’ difficile prendersela con Twitter se dà del bugiardo a Trump che mente per davvero. Ed è difficile prendersela con Twitter se silenzia degli account pagati per far propaganda politica a un moderno tiranno come Erdogan.

Sarebbe molto più facile prendersela con Twitter se mettesse a tacere, per la stessa ragione e, magari, sulla base degli stessi elementi, un’associazione per la difesa dei diritti dei disabili o per la tutela di una qualche minoranza religiosa. Ma le regole non possono valere a senso alterno a seconda che si condividano o meno le decisioni alle quali portano. Bisogna fermare Twitter – e naturalmente fare altrettanto con gli altri – e bisogna che i governi restituiscano a Giudici e Autorità il compito che oggi stanno lasciando esercitare a Twitter e agli altri e, anzi, che spesso gli stanno chiedendo di esercitare. Amministrare giustizia non è questione da società privata, mai.

Che Twitter e gli altri, eventualmente, mettano a disposizione di Giudici e Autorità le risorse tecniche e economiche necessarie a fare quello che fanno loro. Una cosa è collaborare con la Giustizia di un Paese, rafforzarne la capacità di risposta davanti a fenomeni nuovi e globali e un’altra e sostituirvisi. Ma, per carità, la giustizia, in democrazia, non può diventare un fatto privato, neppure online, neppure con l’alibi che così si fa prima.

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