“Senti io non ho panini, non ho mangiato! Io non ho mangiato, non ho soldi, non mangio da ieri sera… non ho niente!”. È l’urlo disperato di Stefan, uno dei tanti braccianti stranieri sfruttati neelle campagne al confine tra la Puglia e la Basilicata. Al telefono con la caporale che l’ha reclutato, sfoga tutta la sua disperazione. Stefan guadagna 4 euro per ogni ora di lavoro alla raccolta nei campi. I suoi turni durano anche dieci ore al giorno sotto il sole del Sud che d’estate non lascia nemmeno respirare. Capita spesso, però, che alla fine della giornata non riceva denaro e quando il giorno di paga arriva, il “padrone” ne trattiene una parte per la stanza fatiscente nella quale dorme, per il trasporto dal paesino ai campi e persino della benzina che il mezzo consuma. Nelle tasche di Stefan non resta praticamente nulla. Nemmeno gli spiccioli per comprare un panino. Come Stefan sono in tanti, tantissimi. Stranieri e italiani. Costretti ad accettare qualunque cifra per lavorare. Obbligati a restare in silenzio se le promesse iniziali del padrone non vengono rispettate. E se qualcuno alza la testa, le reazioni degli sfruttatori sono diverse. Nella migliore delle ipotesi fanno finta di non conoscerlo. Nei casi più estremi minacciano anche di morte e a volte sparano anche.

La storia di Stefan è venuta a galla nell’inchiesta denominate “Radici” che ha svelato una delle tante vicende e giovedì ha portato alla condanna di un caporale a 8 anni di carcere. Un’inchiesta partita dal tentato omicidio di un uomo italiano che aveva provato a ribellarsi allo strapotere dei padroni. A settembre 2016 era stato raggiunto dai sei colpi di pistola. Per fortuna nessuno dei proiettili aveva raggiunto parti vitali. Quell’avvertimento però non lo spaventa, anzi: qualche mese dopo ha testimoniato contro i presunti mandanti dell’agguato. In quello stesso giorno un nuovo avvertimento viene messo a segno: in un piccolo pezzo di terra di sua proprietà, numerosi ceppi di vite vengono tagliati e resi inutilizzabili.

Eventi che spaventano tutti e spingono a restare in silenzio. Non solo. Spingono gli sfruttati a diventare complici dei loro sfruttatori. E quando nei campi arrivano i carabinieri e gli ispettori del lavoro per i controlli, basta un sms e tutti i lavoratori in nero scappano. “Il padrone stava qua … allora è arrivato l’ispettorato… dal cancello hanno visto e ci hanno trasmesso i messaggi a noi di scappare”, racconta uno di loro ignaro di essere ascoltato dai militari. Gli investigatori, però, durante uno di quei controlli recuperano il quaderno di una donna. Ci sono nomi, date, cifre e le aziende dei padroni. “L’importante – cerca di rassicurarla uno dei suoi complici – è che quelli che tu porti non dicono che porti tu… e che prendi i soldi per portarli a lavorare… la benzina o meno… capito?”. I militari ascoltano tutto. Scoprono la donna è allo stesso tempo caporale e vittima. È lei al telefono a chiedere conto a uno dei padroni dei soldi che non ha ricevuto: “Io ti ho chiamato a te?! E chi ti conosce! Chi ti conosce a te! Io non so nemmeno chi cazzo sei..!”.

La minaccia di una vertenza, infine, non spaventa più: “”Vai, vai che poi ti faccio vedere io che ti combino! Non devi fregare i soldi agli operai e poi vieni a piangere dagli altri”. I ruoli, in questa lotta egoistica per la sopravvivenza si scambiano. L’indagine, anche grazie all’impegno della Flai Cgil porta all’arresto di numerose persone: alcuni, come la caporale patteggiano, altre invece scelgono il processo e le condanne arrivano: il tribunale di Taranto ha inflitto una pena fino a 8 anni di carcere. “La Flai Cgil – ha commentato l’avvocato Claudio Petrone che ha rappresentato il sindacato e le vittime nel processo – è impegnata oramai da anni nella lotta al caporalato. Sono tante ancora le realtà nelle quali i braccianti sono vittime di sfruttamento. Continueremo ad essere presenti accanto ai lavoratori, sui campi e nelle aule di giustizia”.

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