Il Consiglio Federale Figc alla fine ha deciso: il campionato di calcio della serie A femminile, contrariamente agli uomini, non ripartirà. Ci sarebbe poco da commentare, se la sorte del campionato delle donne del calcio fosse stato subito trattato come le altre realtà che fanno capo alla Lega Nazionale Dilettanti.

Ma siccome il calcio femminile è da poco tornato sotto l’egida della Federazione Gioco Calcio, la discussione è stata accesa per diverse settimane con il dilemma: ripartire o chiudere il Campionato in anticipo? Raccontare cosa è successo ha senso, ancor più perché siamo alla vigilia dei decreti attuativi che il governo sta studiando per rimediare al “dilettantismo” forzato, incostituzionale e obbligatorio riservato alle atlete italiane di ogni sport.

Avvalendomi dell’arbitraria facoltà di una sintesi giornalistica, ricordo che mentre Gabriele Gravina, Presidente della Figc, trattava per la riapertura in sicurezza della Serie A con la Lega e i ministri Roberto Speranza e Vincenzo Spadafora, più di una grande società che ha allestito al suo interno “la costola” femminile premeva perché a ripartire fosse anche la serie A delle donne.

In maniera onestamente opinabile ho visto invocare due cose: da un lato la necessità di non trattare diversamente la serie A maschile da quella femminile, dall’altra la ripartenza pressoché immediata, sostenendo che questo avrebbe agevolato il percorso verso il professionismo chiesto ormai a gran voce dalle calciatrici e, da vent’anni, da Assist Associazione Nazionale Atlete. In realtà, a mio parere, queste due motivazioni non stavano in piedi sia per logica che per tutela sanitaria.

Ricordarsi che le atlete vadano trattate nella stessa maniera degli uomini solo quando conviene ai grandi club mi ha fatto persino sorridere. Il punto che faceva ridere meno (soprattutto molti medici responsabili delle associazioni sportive dilettantistiche del calcio femminile) era l’evidente impossibilità di ottemperare ai pesantissimi (e doverosi) obblighi di tutela sanitaria previsti come conditio sine qua non per ricominciare.

Pensare che la Pink Bari, ad esempio, possa avere la stessa capacità organizzativa, finanziaria e di disponibilità esclusiva dell’impianto di squadre come Juventus, Milan o Roma è semplicemente assurdo. A questo, basta aggiungere che i dirigenti dei piccoli club avrebbero avuto l’obbligo di assumersi responsabilità civili e penali pesantissime, pur esercitando la propria attività come volontariato.

Che il calcio maschile e quello femminile siano mondi diversi non solo lo ha detto con onestà Sara Gama, ospite di Lilli Gruber, ma lo chiarisce l’evidenza dei numeri dei tesserati, dei soldi che circolano, dei diritti tv, dell’indotto creato e delle professionalità al servizio dei club. Pensare che l’uguale ripartenza del Campionato fosse la spinta giusta verso una parità che deve passare da ben altre azioni era, nella migliore delle ipotesi, un madornale errore.

Certo non fa piacere a nessuno chiudere un Campionato così, ma oltre a quanto già detto, evidente era che non vi fossero le condizioni perché tutti i Club della Serie A femminile ripartissero alla pari. Era ed è tuttora chiaro che a esserne enormemente avvantaggiate sarebbero state le società più grandi e strutturate.

Ora, a decisione presa, è doveroso precisare ancora un concetto: non si diventa professioniste a comando o perché in qualcosa si può fare “come i maschi”. La parità di genere deve arrivare innanzitutto creando le condizioni legislative per cui, se io gioco a calcio e quello è il mio lavoro, devo poter avere accesso alla legge che mi tutela come lavoratrice dello sport.

Poi, e qui il ragionamento è strutturale e non riguarda solo il calcio, occorre fare sì che i decreti attuativi non siano solo una toppa alla vergognosa discriminazione per cui nessun’atleta donna in Italia può avvalersi della legge 91 del 1981 (sul professionismo sportivo), ma diano modo a ciascuna di trovare nel proprio club le condizioni di tutela, necessarie e doverose, senza che le associazioni sportive vadano in fallimento dopo 2 mesi per il costo del lavoro raddoppiato.

In questa ottica l’emendamento del senator Nannicini, che consentirebbe sgravi importanti alle società sportive che eventualmente facessero “emergere” atlete professioniste, potrebbe essere utile, ma solo dopo. Molto dopo.

Le scorciatoie non servono e non bastano. Serve una riforma strutturale e coraggiosa per lo sport in Italia. Una riforma che faccia comprendere e riconosca politicamente l’enorme valore sociale ed economico che l’attività sportiva rappresenta. Una riforma che promuova l’attività motoria di un Paese che potrebbe risparmiare decine di milioni di spese del servizio sanitario nazionale, se fossimo meno sedentari.

E se vogliamo dirne ancora una davvero utile, serve che alle aziende “convenga” investire sullo sport come chiede la Lega Volley, che da anni rappresenta una delle organizzazioni più virtuose e meglio gestite del panorama sportivo italiano. Quello che invece di sicuro non è utile è il pinkwashing, o le scelte di comodo fatte magari sulla pelle delle atlete o dei volontari che operano nel mondo dello sport femminile infinitamente più povero.

Il ministro Spadafora e il Coni sono chiamati a studiare con tutti i rappresentanti dell’intero mondo sportivo le condizioni per dare trasparenza a risorse economiche e rapporti di lavoro nell’industria sport, che, ricordiamolo, muove quasi il 3% del Pil. È questa la storia ancora da scrivere e che noi donne chiediamo da 20 anni. Una storia che aspettiamo da troppo tempo e che non si può fare solo nel nome del calcio.

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