Si è aperta la fase 3 e stiamo facendo i conti con la nostra nuova routine: come la state affrontando? Com’è cambiata la vostra professione e quali difficoltà state incontrando? Come giudicate l’organizzazione nelle vostre città? Raccontatecelo, il blog Sostenitore è pronto ad ospitare le vostre riflessioni o denunce. Vi basta compilare il form apposito, la redazione leggerà i vostri post (tutti) e pubblicherà i migliori ogni giorno.

di Andrea Taffi

Nella fase 1 della pandemia da coronavirus siamo stati (noi italiani, intendo) molto bravi. Abbiamo fatto bene la nostra parte per combattere il virus, e l’abbiamo fatto anche con orgoglio, cantando dai balconi, sventolando il tricolore. Siamo stati stoici nel rimodellare la nostra vita, stando a casa, giocando coi nostri figli. Nella fase 1 ognuno di noi ascoltava i medici, i virologi, gli infettivologi; e pendeva dalle loro labbra, non soltanto noi cittadini. Anche i politici, ad esempio, che non prendevano una decisione senza consultarli; anche i giornalisti, che li hanno intervistati sui giornali e nei programmi televisivi.

Poi è arrivata la fase 2, l’economia ha cominciato a essere più stringente della salute, ma i virologi e gli infettivologi non hanno smesso di contare, di essere ascoltati e seguiti, perché era sempre a loro che politici e non si rivolgevano per sapere che cosa si poteva fare, quanto si potevano allargare le maglie della quarantena, che cosa poteva ripartire, chi poteva uscire di casa.

Adesso siamo alla fase 3, i confini tra le regioni sono riaperti, tra poco riapriranno anche le frontiere europee. C’è in tutti noi la convinzione (dettata più dal desiderio che da altro) che il Covid-19 sia praticamente sconfitto, la convinzione di essere tornati liberi, di aver vinto la battaglia col virus. E questo convincimento (più istintivo che realistico) fatalmente ci allontana dai virologi, dagli infettivologi, dai loro ammonimenti, dalle loro parole, parole che sì abbiamo ascoltato, ma che adesso non vogliamo sentire più.

Ecco, allora, comparire certi intellettuali che dicono che il tempo dei virologi è finito. Basta, dice qualcuno, con la presenza di medici in televisione, e basta anche col “virologicamente corretto”, con il “paternalismo virologico”. C’è voglia solo di sole, di mare, di libertà, anche economica, c’è voglia, necessità di ripartire e quindi (per alcuni) non c’è più posto (in televisione, suoi giornali) per i medici, per la medicina, per le parole di prudenza degli scienziati.

Per questa narrazione, loro, i medici, devono gentilmente farsi da parte e non minare la tranquillità della gente, del desiderio di ripartire e basta, senza limitazioni eccessive. Ebbene, il rischio di questo modo di pensare è (secondo me) quello di dimenticarsi di nuovo della sanità, di non pensarci più (adesso che non serve più), e quindi di tornare a non preoccuparsi troppo dei tagli (tipici di ogni governo) che, via via, la sanità ha subito.

Il nuovo silenzio, ad esempio, sull’assenza di piani pandemici aggiornati; il rischio (altro esempio) che gli ospedali Covid creati ad hoc in questi mesi finiscano per essere abbandonati, vandalizzati, lasciati a se stessi e all’incuria di chi li ha fatti costruire. Io credo che tutto questo sia sbagliato, credo, cioè, che il tempo dei virologi non sia finito, che il tempo di ascoltare i medici, di dare voce alla medicina non sia finito, anzi: che non debba finire mai.

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