Sul titolo riciclato da Andrea Camilleri hanno già detto tutti molto. Sul contenuto del suo ultimo libro invece Matteo Renzi vorrebbe far dire molto a tutti, ma al momento non sembra imprimere il suo giglio magico sull’agenda politica. Piuttosto si limita al ricatto sul breve termine, vera specialità della casa dai tempi di #enricostaisereno. Forse pure da prima. In ogni caso nella presentazione in diretta facebook si riconoscono i due Renzi: quello di ieri e quello dell’altroieri. Di oggi e di domani nulla: l’attuale leader del piccolo partito d’Italia viva è una copia sbiadita delle versioni precedenti di se stesso. Quando va bene. Quando va male pensa e dice cose identiche a quelle di Silvio Berlusconi. Ma con circa venticinque anni di ritardo.

Da una parte, infatti, c’è il gran repertorio da mattatore, che il fu rottamatore usava una volta per atteggiarsi a politica del futuro: “L’Italia shock”, il “sindaco d’Italia“, l’accountabilty. Inglesismi senza senso da consulente della Milano da bere, e punti esclamativi a casaccio. Torna perfino la cara vecchia espressione del “non è più tempo“: per chi? Per cosa? Manca solo il referendum costituzionale del 2016, trauma mai superato, ma si affaccia un concetto simile: “Presto si tornerà a parlare della Grande Riforma“. La grande riforma? Cosa sarebbe “la Grande Riforma“? Ma ovviamente un altro pasticcio costituzionale, questa volta però senza “specchietti per le allodole come in passato”. Di cosa sta parlando il senatore di Scandicci? Della “riduzione del numero dei parlamentari, il cui unico effetto è stato quello di accrescere il tasso di sfiducia verso la politica”. Problema: quattro anni prima della legge approvata dall’attuale esecutivo, la riduzione del numero dei parlamentari era inserita dentro la sua riforma costituzionale. Quindi, praticamente, Renzi sta confessando: nel 2016 il taglio delle poltrone serviva solo a rendere più appetibile tutto il resto. “Non è più tempo di bluff“, scrive oggi lo stratega di Rignano, rivolgendosi probabilmente a se stesso. Senza il bluff del tagliapoltrone, dunque, cosa rimane della “Grande riforma” a breve sui tutti i canali? “Torneremo a chiederci se abbia un senso che l’Italia rimanga un paese in cui ogni decisione viene sottoposta ad almeno un duplice passaggio parlamentare, in cui si danno due voti di fiducia“. In pratica il superamento del bicamerelismo perfetto, per usare il linguaggio di Renzi versione 2016, peraltro bocciato da quasi il 60% di No al referendum.

Quando non ricicla vecchie proposte sue, invece, c’è il programma di Silvio Berlusconi. Non una versione simile, visto che sembra proprio quello vergato ad Arcore: la lotta contro qualsiasi ipotesi di patrimoniale, e vabbè; il presidenzialismo per eleggere direttamente non solo il capo del governo, ma anche il presidente della Repubblica; il ponte sullo Stretto resuscitato da chissà quale scantinato di Porta a Porta in cui erano finiti i punti programmatici della Casa delle Libertà, tic di cui ilfattoquotidiano.it non manca mai di dare conto; e anche, perché no, un condono, in particolare sul contante. La versione di Renzi è la seguente: “Tiro fuori il contante, pago una tassa, ricevo la possibilità di non essere perseguito”. Morale: saluti con distanziamento sociale alla lotta all’evasione. Sopra una spolverata di vittimismo preventivo: “Mi attaccheranno su questo ma è un principio sacrosanto”. E qui siamo all’amnesia: sul tema, infatti, Renzi è stato già attaccato abbondantemente. E non perché è “antipatico” – altro grande alibi della casa – ma solo perché un’idea simile l’ha già pensata durante i suoi governi. Per due volte – tra il 2015 e il 2016 – fu inserita in legge di Bilancio la voluntary disclosure. Quella misura non riguardava tutto il contante nero, ma puntava comunque a far emergere il denaro evidentemente non dichiarato allo Stato, depositato in cassette di sicurezza. Cioè in tutto e per tutto un condono per evasori, come lo definirono vari commentatori all’epoca. Dopo un lustro Renzi non cambia neanche nome: “L’idea di fondo è quella di fare una voluntary disclosure del contante“, dice oggi. L’idea di fondo è vecchia di sei anni. E neanche particolarmente di successo.

Su tutto, colorato di tinte azzurrine del passato prossimo che fu, c’è la questione della giustizia e di quello che lui chiama, come il suo predecessore (da cui lo differenzia solo la percentuale dei voti), il giustizialismo. Come ad Arcore, anche nel giardino di casa Renzi vanno di moda gli attacchi a Piercamillo Davigo, definito “un membro del Csm che non ha capito la differenza fra giustizia e giustizialismo”. E come nella villa di Berlusconi, anche a Firenze si ha una visione leggermente distorta di Tangentopoli. Distorta? Completamente fuori dalla realtà. Per Renzi, infatti, “rischiamo una nuova Tangentopoli”. Cosa sta dicendo? “Tangentopoli – sostiene – nasce quando la politica è debole e la magistratura assume un ruolo di supplenza. E’ fondamentale che la politica recuperi il proprio ruolo, non può essere subalterna alla magistratura“. L’opinione pubblica, oltre che la grande parte della storiografia, erano rimaste al fatto che l’inchiesta Mani pulite fu possibile, probabilmente, in un periodo in cui la politica mostrava segni di cedimento, tra un quadro internazionale che cambiava e un Paese terremotato dalle stragi di mafia. Il sistema politico era talmente carico dei suoi malanni che fu portato all’implosione da una semplice indagine, che però fece da cesura tra Prima e Seconda Repubblica. Tradotto: si rubava anche prima, ma Tangentopoli esplode quando tutti – ma proprio tuttirubano a un livello talmente diffuso che il sistema non regge. A quel punto bastava una piccola crepa per farlo crollare. Quella crepa, per una coincidenza, fu il “mariuolo” Mario Chiesa: poi vennero gli altri mille, anzi per la precisione gli altri 1.233, come il numero delle condanne per corruzione, concussione, finanziamento illecito dei partiti e relativi falsi in bilancio aziendali, calcolato dal sito del ministero della Giustizia. Renzi, però, ha una visione tutta sua della vicenda. Per lui Tangentopoli con la corruzione non ha nulla a che vedere. Neanche la nomina quando espone la sua singolare tesi dei politici deboli puniti dai magistrati forti. Forse, in effetti, l’unica novità di tutta l’ultima fatica letteraria di Renzi è quell’allerta: “Rischiamo una nuova Tangentopoli“. Staremo a vedere.

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