Emna Chargui continua a maledire il momento in cui ha schiacciato il tasto “Pubblica sul tuo profilo”. Il 2 maggio la 27enne blogger tunisina ha condiviso su Facebook la “Sura del Corona”, un post ironico in cui, nella forma che richiamava un verso del Corano, c’era scritto che il Covid-19 proveniva dalla Cina e che era necessario lavarsi le mani.

Nei due giorni successivi è stata sottoposta a interrogatori. Il 6 maggio è comparsa in tribunale in assenza della sua avvocata. Le è stato chiesto di tutto, dalla sua fede alla recente comparsa di eventuali disturbi mentali fino a domandarle se avesse consultato uno psichiatra.

Al termine dell’udienza è stata formalmente incriminata per “incitamento all’odio religioso attraverso mezzi ostili o violenza” e “offesa alle religioni autorizzate”, ai sensi degli articoli 52 e 53 del codice penale. Rischia fino a tre anni di carcere e una multa di 2000 dinari.

Naturalmente, un attimo dopo la pubblicazione del post, è partita la campagna di odio online. Emna ha ricevuto minacce di morte e di stupro, ma le autorità non hanno preso alcuna misura protettiva nei suoi confronti.

Dunque, nonostante i progressi democratici, in Tunisia si utilizzano ancora leggi repressive contro la libertà d’espressione. Già: perché Emna può aver agito con leggerezza, non calcolando le conseguenze del suo gesto e non tenendo conto della suscettibilità del pubblico di un paese da cui tra l’altro in tanti sono partiti per andare a combattere in Siria, ma ciò che ha fatto rientra in pieno nella libertà d’espressione.

Il processo, fissato per il 28 maggio, è stato rinviato al 2 luglio.

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