In farmacia, al supermercato e ora perfino dal tabaccaio. Le mascherine chirurgiche, modello base, simbolo di libertà e uguaglianza in questa pandemia, se davvero torneranno reperibili sono destinate a diventare un oggetto al 100 per cento socialpopolare. Complice non tanto il prezzo calmierato, quanto il fatto che chi le indossa dovrebbe proteggere chi incontra filtrando oltre il 90% di quello che esce dalla sua bocca e viceversa, con anche un effetto simbolico davvero azzeccato.

Peccato però che questo effetto non sia garantito da tutte le mascherine in commercio. Anzi, la garanzia c’è solo se si indossano delle chirurgiche di nome e di fatto, che sono un dispositivo medico e di protezione individuale con tanto di certificazione (o autocertificazione) e sono detraibili dalle tasse. Le altre, invece, sono dispositivi “per la collettività” o mascherine filtranti, “popolari”, come le chiama qualche farmacista, o ancora “per i privati”, secondo la definizione dei produttori che le distinguono così da quelle mediche, le uniche che possono essere vendute agli ospedali e sono utilizzabili sui luoghi di lavoro. Chi le produce non deve certificare niente se non che non sono dannose, chi le compra non le può detrarre dalle tasse perché non sono dispositivi medici e per lo stesso motivo, spiegano da Federfarma, non rientrano negli accordi sul prezzo massimo di 0,5 euro oltre all’Iva.

Con il risultato paradossale che in assenza delle chirurgiche si rischia di trovare solo le popolari e di pagarle cifre considerevoli. Perché entrambi i prodotti si vendono in farmacia e rischiano di confondersi l’uno con l’altro, come ammettono gli stessi farmacisti interpellati da ilfattoquotidiano.it. “Credo che siano la stessa cosa, sono quelle leggere, quelle che si portano comunemente in giro e che si vedono anche in televisione”, dice una farmacista. “Secondo me c’è una differenza di qualità, sono diverse di spessore, io adesso ho addosso una chirurgica e mi sudano i baffi, quando uso l’altra non mi dà nessun fastidio – spiega un altro -. Questa differenza un cliente normale non la nota neanche. Cosa ho venduto in questi mesi? Ho avuto di tutto, francamente non saprei anche perché la differenza è minima, si perde dentro i certificati che sono metà in cinese, metà in italiano, metà in inglese: siamo nati per fare un altro lavoro e ci stiamo facendo una cultura di mascherine che è un incubo, in quel momento abbiamo preso quello che c’era”.

Più lapidaria una terza collega da Milano: “Noi le mascherine per la collettività non le teniamo, perché non sono un dispositivo e anche con queste mascherine bisogna tenere la distanza di almeno un metro con le altre persone, quindi abbiamo tenuto solo le chirurgiche che adesso però non ci arrivano, le abbiamo terminate”. Non così un collega maschio che ha la farmacia poco lontana: “Le poche che abbiamo avuto come chirurgiche le abbiamo vendute come chirurgiche, ma non c’era un tipo a o un tipo b. È assurdo”, dice. “Da noi le chirurgiche non arrivano da credo febbraio, massimo inizio marzo, c’è stato un periodo in cui vendevamo quelle monovelo o due veli, ma non sono chirurgiche. Quelle verdi o blu sono quasi sempre chirurgiche, ma ci deve essere la marcatura CE”, spiega un altro ancora.

Il più rassicurante, insomma, è il farmacista nel cuore di Chinatown: “Non mi ricordo più quando ho visto l’ultima chirurgica. Quelle che abbiamo venduto ad aprile, come quasi tutte quelle che ormai si trovano in farmacia, sono mascherine protettive a tre veli, come vengono definite, quindi non ad uso chirurgico, ma in realtà le chirurgiche vengono destinate ad ambienti quali ospedali eccetera e credo che sia giusto così. Con le private, basta stare lontani, la loro protezione è controversa, ma i dispositivi solo quelli che proteggono chi li indossa, mentre questi sono ausili. Protettivi perché proteggono chi ti sta intorno”.

La differenza da un punto di vista normativo, però, è sostanziale: le chirurgiche a fronte di una ridotta capacità filtrante in entrata, offrono un filtraggio in uscita pressoché totale. Quindi se due persone le indossano correttamente, in teoria una dovrebbe appunto proteggere l’altra. Il rispetto dei requisiti tecnici è garantito dall’Istituto superiore di sanità direttamente o, in seguito a una deroga introdotta dal Cura Italia, (articolo 15), per autocertificazione da sottoporre comunque all’Iss. Lo stesso decreto, all’articolo 16 intitolato Ulteriori misure di protezione a favore dei lavoratori e della collettività, ha poi battezzato le mascherine filtranti o per la collettività quelle per le quali non è richiesta nessuna certificazione o validazione, così che molte aziende del tessile hanno potuto riconvertirsi con un business utile alla collettività. Basta che non siano dannose.

A vederli i due prodotti possono sembrare identici ed è tutto legale. A richiesta il farmacista lo dirà, anzi, è quasi sempre scritto sulle etichette dei pacchettini in cui sono state vendute nella Fase 1 che “Non si tratta di dispositivi medici”. Ma se non ci si fa caso e non si chiede, si rischia di portarsi a casa un prodotto con requisiti tecnici inferiori a quelli che si cercava. Il risultato è che le chirurgiche che sono sulla faccia della maggior parte degli italiani, rassicurando chi li incontra, non sono chirurgiche e non garantiscono un bel niente sulla potenza di filtraggio. Quindi benché siano assolutamente legali e “sempre meglio che niente”, anzi, molto meglio che niente, le mascherine per la collettività hanno generato un bell’equivoco e – forse – sicurezza solo percepita.

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