L’invocata Fase 2 è destinata a riportare rapidamente un certo tradizionale rumore di fondo nelle nostre città, con la riapertura dei cantieri edili e una ripresa seppur ancora parziale del traffico automobilistico. Questa sorta di fischio d’inizio suonerà al contrario della tromba del silenzio che ci ha sedotto per settimane, disorientando molti, eppure semplicemente segna il ritorno alla ‘normalità’.

Di certo già da qualche giorno, i poetici cantori del “tempo sospeso” e del vuoto come occasione per riscoprire lo spazio interiore stanno lasciando la scena mediatica uno dopo l’altro. Anche l’ottimismo, tirato così per le lunghe, sta cedendo il passo a una visione più scettica e disincantata del ‘mondo dopo’ il Covid 2019. Altro che rinnovato apprezzamento per le piccole cose, ricerca di valori più autentici e riscoperta della natura! Non sono soli i due Mattei più antipatici d’Italia a smaniare per la ripresa di alcune attività economiche, e l’impazienza della vigilia è come se stesse cancellando le piccole buone certezze di questi giorni.

Francesco Guccini, un grande saggio ormai ottantenne, dice che non saremo migliori quando tutto questo sarà finito, e c’è da prenderlo sul serio: all’Osteria da Vito di Bologna, già di più di quarant’anni fa, era chiamato “il Maestrone”, soprannome pronunciato più con autentico rispetto per la sua (quasi) onniscienza che con ironica ammirazione per la sua sentenziosità. Davvero tornerà tutto come prima?

Volendo non perdere la speranza, gli inguaribili sognatori di un cambiamento devono prendere atto che si sia aperta quantomeno una fase dialettica. Con il senno di poi, una componente chiave di quella che schematicamente si può chiamare la reazione del sistema è stata senza dubbio l’insopportabile ondata di retorica propagandistica che si è levata, le bandiere d’Italia e i video d’orgoglio nazionale, gli arcobaleni dell’andrà-tutto-bene e le cantate al balcone, tanto bla-bla sull’eroismo e il sacrificio: non a caso tutto questo materiale è diventato subito cinicamente nuovo armamentario per i pubblicitari.

Va ripensata anche quella sorta di “romanticizzazione della quarantena” cui abbiamo assistito da subito, spinta a vario titolo da personaggi dello spettacolo e del costume, che alcuni critici (vedi A. Maggi- B.W.R. Toscano su Jacobin) reputano proprio scandalosa, a fronte degli effetti d’impoverimento ulteriore per la popolazione più disagiata nonché d’allargamento dell’enorme platea di poveri (14 milioni in Italia, ma già si calcola addirittura che siano saliti a 21 milioni di persone in poche settimane).

Da più parti è stata messa a tema anche l’opportunità di questa sosta forzata e improvvisa. C’è chi ha pigiato persino sulla retorica dell’ascolto di una più che improbabile “voce del silenzio”; altri, invece, come lo scrittore Paolo Cognetti, hanno messo a fuoco diversamente l’argomento: “quanto ci viene chiesto in questo momento è di affrontare il vuoto, senza la frenesia di riempirlo. Affrontare il tempo vuoto, la noia anche, l’attesa: tutte cose che l’uomo prima di noi era abituato a vivere” (intervista al sito dell’associazione ‘territorialista-montagnard’ Dislivelli).

Tra gli effetti di questo strano “silenzio svuotato” di fronte al quale ci siamo trovati nel lungo periodo di quarantena vi è stata, non a caso, la clamorosa impennata degli ascolti televisivi e radiofonici delle cerimonie religiose tradizionali, con alcuni picchi notevoli, dal rosario per il Paese al 12,8 per cento su TvSat2000 (una rete fino a ieri perlopiù da zero virgola) al record assoluto del 64 per cento (con 17 milioni e mezzo d’italiani davanti alla diretta da Piazza san Pietro tra le 18 e le 19) per l’ormai celebre preghiera solitaria di papa Francesco sotto la pioggia.

Da qui a parlare di una riscoperta collettiva della dimensione interiore se non addirittura dell’esperienza religiosa, il salto è notevole. Nella Bibbia c’è una storia paradigmatica in proposito, ed è l’incontro tra il profeta Elia e Dio nel Libro dei Re (cap.19): la divinità non si manifesta dopo la tempesta di vento, il terremoto e il fuoco che precedono la teofania, ma dopo “il rumore di un’aura lieve”, come suggerisce la versione poetica di Fulvio Nardoni, fedele alla vulgata latina che parla di “sibilus aurae tenuis”. Per dirla con la traduzione di un grande studioso dell’ebraismo moderno come Martin Buber, “il mormorio di un silenzio che si spegne”.

Sono millenni che la cultura umana indaga anche questo ossimoro della “voce del silenzio”, più impalpabile delle goccioline infinitesimali del virus. Qualcuno magari c’è riuscito anche in piena Fase 1. Ma alla fine, forse, scopriremo di essere diventati solo tutti più poveri, anche di spirito.

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