Era l’ora di fare i conti con l’esperienza diretta del non senso. La parola più ricorrente di questi strani giorni è: assurdo. E’ evidente che il senso predeterminato e formattato delle quotidiane esperienze ha rimosso da qualsiasi orizzonte del pensabile lo stravolgimento della nostra vita quotidiana. La condizione coatta e asserragliata di regole e divieti che investono il corpo non riguarda di solito gli altri?

Da quando al diritto naturale si è sostituito il diritto positivo (cioè storicamente posto di volta in volta dall’uomo giuridico) non pensiamo abbastanza alla provvisorietà dei nostri diritti, alla semplicità con cui, a fronte di un fenomeno decretato quale emergenziale, ci possano essere sottratte in poche ore le nostre libertà.

E invece siamo ora talmente investiti di tali privazioni che il concatenarsi dei nostri interrogativi blatera parole banali, perlopiù veicolate e riverberate dai media meanstream, gongolanti di scoop e a caccia di eroi in varie salse.

In questo caso il rischio è che si continui a parlare soltanto d’epidemia (che è un grave problema) senza considerare, per esempio, gli aspetti liberticidi della “somatocrazia” e lo strapotere di una certa scienza medica, descritta in modo esemplare quasi mezzo secolo fa da Michel Foucault.

La concreta esperienza delle frontiere della società disciplinare ci costringe ora a vivere in solitudine l’assenza di senso e la possibilità di tentare seppur con affanno di ricostruirne uno nuovo. Occasione che facilmente andrà sprecata per scarsa consapevolezza collettiva di come la nostra quotidianità di liberi fosse satura di solo “pensiero che calcola”.

Tanto più difficile se quest’inedita realtà è regolata da quella tecnica che pensiamo essere strumento saldamente nelle nostre mani ma che progressivamente sta diventando un fine da cui in modo sempre più alienato dipenderemo.

Qualche noioso intellettuale ha perfino osato indicare altre prospettive di pensiero, ed è così che Giorgio Agamben è stato investito di critiche, ignorando ciò su cui con lungimiranza si era invitati a riflettere.

L’ostinazione ottusa e rassicurante di dare un senso formattato a tutto preclude però la possibilità di pensare ad una qualche forma alternativa, dotata di una certa ormai necessaria radicalità.

Non penso solo al modo in cui affronteremo le emergenze sanitarie, ma ai dispositivi disciplinari che in forme più o meno sottili e pulviscolari hanno pervaso nel tempo l’esistenza delle nostre democrazie, alla loro recrudescenza in circostanze, per l’appunto, emergenziali. Ma per un motivo o per l’altro non siamo forse spesso in emergenza?

Oggi si parla di droni e app per controllare e tracciare gli spostamenti e che si aggiungerebbero alle migliaia di telecamere di cui è cosparso il nostro territorio: quando l’emergenza sanitaria sarà finita perché non utilizzare ancora questi dispositivi che ci offrono così tanta sicurezza?

Cos’è un’emergenza nella testa dei produttori di sicurezza nelle sue molteplici forme? E’ plausibile pensare che in loro esista la necessità di alzare progressivamente il loro livello di “sicurezza”, e quindi di paura?

E cambiando ambito, perché non consolidare la didattica a distanza? L’e-learning è cosi comodo, risolve diversi problemi: la salute, i trasporti, gli edifici da sistemare, la carenza di personale, ecc. Della relazione in presenza come fattore deciso per qualsiasi processo formativo ci si potrà accontentare di quel che c’è, tanto più se il fianco è prestato dai pedagogisti. E via di questo passo. A dosi omeopatiche col tempo ci si abitua a tutto, anche all’irreversibilità della perdita di cose che pensavamo irrinunciabili, ovviamente per questione di bilancio, per metterlo in sicurezza.

Porsi questi interrogativi e coglierne il denominatore comune è il requisito minimo per confutare la concreta idea di mondo migliore che si va consolidando nei paesi economicamente avanzati e tecnologicamente onnipotenti (e nella nostra testa).

Una riflessiva lettura dello specialistico romanzo distopico che stiamo scrivendo con linguaggi codificati, sofisticati e disumani potrebbe aiutarci ad aprire gli occhi.

Articolo Precedente

Coronavirus, a volte basta poco per scoprire l’invincibilità della vita

next
Articolo Successivo

Coronavirus, sono volontario della Croce Rossa ma mi sento come lo scrutatore di Calvino

next