Sostengo da quando ho iniziato a insegnare che la struttura chiusa della scuola, con i suoi orari fissi e le sue scadenze, i suoi resoconti numerici e le sue maglie burocratiche, non ti prepari alla società adulta, ma ti costringa ad adattarti ad essa. Il fatto che sia stata una delle prime istituzioni a chiudere, alla vigilia del disastro umano che stiamo attraversando, pare simbolico della fragilità della sua ratio fondante nel passato. Una delle riflessioni che qualcuno dovrà porsi, una volta passata la terribile straordinarietà di questo altrettanto terribile momento, riguarda la superficialità con cui la struttura attuale della società abbia reso la scuola uno dei suoi organi vitali più vulnerabili.

Quello che dovrebbe essere il luogo “aperto” per eccellenza, in cui costruire un’alternativa virtuosa a certi vicoli ciechi sociali e civili, è stato invece – perlomeno fino ai giorni che hanno preceduto il virus – troppo spesso un’imitazione isomorfica dei mali che affliggono la società. Una sorta di profezia autoavverante in cui la cultura non sempre si è fatta aggregazione armoniosa di una comunità in fieri, e strumento prediletto dell’annunciazione di nuove consapevolezze, bensì merce di scambio tesa a garantire una retribuzione, che fosse in termini di voti, crediti, o in termini di posti di lavoro futuri.

La differenza sostanziale tra scuola e società “adulta”, tuttavia, sta nel fatto che nella prima si lavora ancora con individui non in condizione di scegliere per sé, le cui consapevolezze sono in formazione, mentre nella seconda si tende ad ascrivere completamente le proprie scelte ai sistemi da cui si è dipendenti, siano essi economici o relazionali.

Non è scritto da nessuna parte che gli studenti di oggi decidano di percorrere le stesse strade delle proprie famiglie, non fosse altro per il fatto che non vivranno nella stessa società in cui sono vissuti i loro genitori. A maggior ragione ora, che i concetti stessi di “istituzione” e “sicurezza” sembrano accusare i colpi inflitti dal panico delle masse confuse, spaventate di fronte alla pandemia. La società dell’accumulo, che ha di fatto stipato per anni il “capitale pre-adulto” dentro quattro mura, ha fallito. La cultura gli sopravviverà e, guardando alle fasce di età maggiormente risparmiate dal morbo, anche gli studenti.

Alla luce di ciò, trovo ci sia più speranza di intervenire in maniera proattiva sulla società lavorando nella scuola più che sulla società adulta, la quale sembra abbastanza condannata alla consunzione di sé stessa, a un auto-cannibalismo cieco e sordo fatto di assalti ai supermercati notturni e incapacità di rinunciare a sé stessi e alle proprie abitudini, a dispetto del bene collettivo.

In questi giorni di collasso stiamo sperimentando tutti ciò che a qualcuno di noi è sempre stato chiaro: i sistemi lavorativi ed economici sono fatti per agevolare l’esistenza, non per condizionarla. Nel momento in cui ciò avviene, è bene ricordare che questi sistemi sono fragili quanto la condizione umana che li determina. Pensare soltanto a sopravvivere alla pandemia per poi riprendere la propria attività è un atto legittimo, ma se rimane un gesto fine a sé stesso, col tempo, potrebbe anche essere considerato egoistico. Ripensare una società diversa sarà un dovere di chi l’avrà scampata. Il processo sarà lento e dovrà superare decenni, forse secoli, di opposizioni e diffidenze, ma l’unica speranza è che la società che verrà, non importa quanto lontana, non sia più basata sull’identificazione con la propria produttività, ma sulla condivisione delle risorse, siano esse materiali, culturali, intellettuali o emotive.

Personalmente, non vedo l’ora di tornare a scuola dai miei ragazzi e dalle mie ragazze per fare la mia parte in questo auspicio, e garantirgli un esame di fine anno che non li faccia sentire giudicati, ma valorizzati sia in quanto individui che in quanto collettività.

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