Ascoltato in metropolitana: “Il coronavirus ha qualche lato positivo. A medio termine aiuterà i bilanci statali, alleggerendo il peso insostenibile delle pensioni”. La ragazza era vestita in modo impeccabile, tipo giovane praticante in uno di quegli studi legali alle cui pareti il quadro meno saliente è un Caravaggio. L’uomo a cui si rivolgeva, in piedi di fronte a lei nonostante l’ampia di disponibilità di sedute, non faceva alcuno sforzo per celare un sorriso lunare: “Sono sicuro che anche al Fondo Monetario la pensano così”. Probabilmente lavorava in banca. La vettura era quasi vuota e, non potendo evitare di ascoltarli, ho stretto con forza le chiavi, l’unica risorsa personale, in ferro, di cui disponevo al momento.

L’aneddoto, veicolato tra coetanei via WhatsApp, non mette di buon umore i baby-boomer. Un bicchiere lo vedi mezzo pieno o mezzo vuoto in ragione di diversi fattori. E, nel caso del coronavirus, l’età è un fattore essenziale: soprattutto chi è avanti negli anni tende al pessimismo. Anche quelli che hanno avuto la fortuna di superare malanni assai più pericolosi. Anche chi ha scoperto che la tipologia di ictus, da cui è guarito, ha il 50 percento di mortalità, statistiche (robuste) alla mano. I baby-boomer – quelli che sono cresciuti cantando “We can change the world” (Chicago di Graham Nash) a squarciagola e s’illudevano di poterlo cambiare per davvero – hanno paura, forse per la prima volta. Hanno il tempo di avere paura. Si sentono fragili e fanno fatica a sostenere la propria fragilità.

Un giovane collega universitario, in vena di facezie ottimistiche via Facebook, pensa invece positivo: in Italia, grazie a un microrganismo acellulare apparentemente insignificante, originato dai pipistrelli dall’altro capo del mondo, ci sarà un notevole impulso al telelavoro, alla mobilità intelligente, all’e-learning, alla igiene dei luoghi pubblici e personale. Saranno annullati migliaia di eventi e riunioni inutili. E così gli italiani potranno finalmente tornare a lavorare in tranquillità per produrre ricchezza e sviluppo per il paese.

Ha ragione. Il mio ateneo, grazie alla bravura e, soprattutto, alla abnegazione di molti colleghi esperti in materia, ha già messo in grado docenti e studenti di lavorare da remoto. Abbiamo fatto tutti un salto di qualità, al quale eravamo sì preparati, ma non ancora pronti mentalmente, soprattutto se anziani. E se ne vedranno i frutti in futuro.

Il giovane collega è comunque in buona compagnia. Secondo l’economista più brillante del secolo scorso, John Maynard Keynes, le catastrofi, vere o presunte, spesso si traducono in progresso economico e sociale: “La costruzione di piramidi, i terremoti, perfino le guerre possono servire ad accrescere la ricchezza, se l’educazione dei nostri governanti secondo i princìpi dell’economia classica impedisce che si faccia qualcosa di meglio”. Invero, Keynes avrebbe preferito governanti più educati, ma sapeva accontentarsi.

Lo storico inglese John Dickie ha scritto che la nostra penisola, per ragioni storiche e ambientali, è la nazione europea più incline ai disastri. E la narrazione apocalittica associata a questa inclinazione ha spesso giustificato l’esaltazione dell’eccezionalità degli eventi da parte di maggiorenti, media e intellettuali, quale diversità intrinseca del nostro paese. Dall’alluvione romana del 1870 in poi, passando per l’epidemia napoletana e siciliana di colera del 1884, l’elenco dei disastri, più o meno funesti, è pressoché infinito. Nel caso del terremoto di Messina (1908) – e di altri eventi, come l’alluvione fiorentina del 1966 – il disastro innescò un movimento di compassione e solidarietà patriottiche di proporzioni mai viste in un paese dove la debolezza del sentimento d’identità nazionale è un luogo comune. In varie occasioni i disastri hanno unito un popolo sparpagliato. La resilienza degli italiani viene talvolta sottovalutata dagli stessi italiani.

Sempre Dickie, però, ha scritto che, nonostante la sua unica vicenda di disastri e calamità, l’Italia e soprattutto chi la governa non dovrebbe alimentare la propensione al catastrofismo, battezzando come eccezionali i fatti salienti della nostra storia, soprattutto se spiacevoli. Ma dovrebbe invocare la consapevolezza ed esortare a comprendere, resistere, condividere; senza paraocchi. E, parafrasando Jovanotti, pensare positivo, almeno finché si è vivi.

Nei disastri che conosco, alluvioni e frane, gli studiosi hanno spesso litigato, in passato; senza riuscire a dare risposte concrete e convincenti. La ragione è evidente: sono fenomeni che conosciamo ancora in modo superficiale e l’incertezza è elevata, sia in fase previsione, sia in quella di mitigazione. E gli scienziati coltivano il dubbio, adoperano la confutazione, mettono in discussione le proprie certezze.

Negli ultimi 20 anni sono stati però fatti molti progressi, proprio analizzando quanto successo: “Se ti addiviene di trattare con le acque, consulta prima l’esperienza e poi la ragione” diceva Leonardo da Vinci. E abbiamo migliorato così la nostra scatola degli attrezzi. Oggi, la prevenzione, l’allerta precoce e le misure di emergenza fanno risparmiare molte vite, se le direttive della Protezione Civile vengono rispettate.

Rispettare la scienza e l’esperienza è l’unico saggio, consapevole comportamento da seguire. La scienza non è perfetta: la virologia ha ancora molto da imparare, come l’idrologia, la geomorfologia e la climatologia. Ma ciò che la virologia e l’epidemiologia già sanno con ragionevole certezza (e condividono con noi) indica la strada migliore per superare questo disastro. E l’unica rotta, realisticamente all’altezza, per navigare nella burrasca.

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