di Claudia De Martino*

Nessun popolo meglio di quello italiano può comprendere, identificandovisi o criticandola, la riconferma del premier uscente Netanyahu che si è avuta lunedì per la quinta volta (1996, 2009, 2013, 2015, 2020?). Politico formalmente indagato, che tra due settimane vedrà l’avvio del processo a proprio carico (processo che gli vede imputati tre gravi capi, tra cui frode, abuso d’ufficio e corruzione), egli è comunque riuscito ad ottenere il voto di una larga parte di elettori che hanno riconfermato il primato del suo partito nel Paese.

I suoi sostenitori lo definiscono un “mago”, i suoi oppositori un “bugiardo millantatore”, ma sta di fatto che dopo tre tornate elettorali e undici anni al potere Netanyahu riuscirà a strappare di nuovo il mandato esplorativo per formare il governo. Una riconquista della propria base elettorale che sembrava aver vacillato lo scorso settembre, quando il Likud si era assestato su appena 31 seggi. Cosa è cambiato da allora?

Duole ammettere, come analisti, che spesso nella lettura degli eventi politici si incorra nell’errore di cercare più le differenze che riscontrare le continuità profonde. In questo caso, l’errore può esser stato indotto dal desiderio di vedere avviarsi una svolta elettorale che invece stenta a prendere forma in Israele. Perché queste elezioni confermano tre macro-linee che si vanno definendo.

1. La prima è che c’è un largo consenso a favore del ‘Piano di pace’ di Trump, che non piacerà all’Europa e ai palestinesi, ma piace moltissimo a Israele. Esso rappresenta indubbiamente l’occasione migliore mai fornita al Paese di giustificare la sua presenza oltre la Linea Verde del 1967, con una sorta di “sanatoria generale” che riconosca la realtà dei fatti sul terreno e includa il decadimento del principio dei “Territori occupati” e del termine “colonie” fino ad oggi adottati dalla comunità internazionale.

Su questo punto Netanyahu e lo sfidante Benny Gantz hanno sostanzialmente concordato, facendo sì che l’elettore medio israeliano si chiedesse che valore aggiunto avrebbe avuto preferire “la copia” (Gantz) “all’originale” (Netanyahu).

2. La seconda linea di demarcazione è quella della progressiva scomparsa delle sinistre, che conferma un dato più ampio sul crollo di tali partiti in tutti o quasi i Paesi occidentali (ad esclusione dell’exploit di Bernie Sanders negli Usa). In Israele – come in Italia, del resto – questo andamento è molto netto, visto che la lista mista formata dalla fusione dello storico partito laburista, del partito di sinistra Meretz e di un piccolo partito centrista (Gesher), si è assestata su appena 7 seggi, meno di quanti ne avessero conquistati i singoli partiti correndo da soli.

3. Infine, il terzo dato politico è l’emergere di una “Lista unita” a prevalenza araba che però, rispetto al passato, guarda ad Israele e non più oltreconfine come sua principale sfera d’azione, e si propone come nuova forza di sinistra capace di unire in un progetto comune tanto gli arabi quanto gli ebrei. Questo risultato non è ancora realizzato né scontato, ma già il fatto che la proposta sia avanzata da una coalizione di partiti che è riuscita a portare un ampio numero di elettori arabi alle urne (67% odierni rispetto ai 49% dello scorso aprile), al contempo rivolgendosi ad un elettorato ebraico plurilingue, rappresenta una fondamentale novità politica.

Questi tre dati riuniti insieme spiegano la vittoria, o meglio il relativo “sorpasso” di Netanyahu sullo sfidante Blu&Bianco. In sostanza, la grande maggioranza degli israeliani crede a ragione che sia stata offerta al Paese un’occasione storica da cogliere al volo – quella di annettere una grande parte delle colonie con la benedizione dell’amministrazione Usa (l’unica che conti effettivamente nel conflitto israelo-palestinese) – e che questa strada vada perseguita in fretta, ovvero da qui a novembre prossimo, quando gli equilibri negli Usa potrebbero nuovamente cambiare.

Questa opportunità, del tutto imprevedibile fino a poco tempo fa, va di pari passo con la diffusione della consapevolezza che Israele abbia inesorabilmente vinto il conflitto con i palestinesi, e che dunque la soluzione dei “due Stati” sia superata. Da qui la dismissione progressiva della sinistra che si era eretta a baluardo di tale soluzione. Per ultimo la crescente consapevolezza che gli arabi siano tanti (sia dentro che fuori di Israele), e che quelli all’interno abbiano imparato col tempo a giocare l’arma democratica a loro favore, rende ancora più urgente per una parte dell’elettorato ebraico rafforzare i propri simboli identitari.

Da qui la vittoria di Netanyahu “il mago”, che ha sì toccato le corde giuste, ma soprattutto cavalcato le paure dei suoi connazionali ebrei, scelta che in politica in ogni dove sembra pagare sempre.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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