È il giorno più importante dell’intera campagna presidenziale. Quattordici Stati – Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont – insieme al territorio delle Samoa americane, votano per le primarie del Super Tuesday. Da assegnare, per i democratici, 1357 delegati sui 3979 complessivi: più di un terzo di chi alla Convention di Milwaukee dovrà decidere il candidato democratico alla presidenza. Anche i repubblicani, sia chiaro, votano al Super Tuesday, ma per loro il risultato appare scontato: la ricandidatura, a furor di popolo, di Donald Trump. Il campo democratico appare invece incerto, diviso. Le primarie di oggi potrebbero dare lo slancio definitivo alla campagna di Bernie Sanders. Potrebbero segnare il rilancio delle ambizioni di Joe Biden. Potrebbero chiarire una volta per tutte dove vanno queste primarie. Potrebbero al contrario complicare ulteriormente la situazione. Il Super Martedì dei democratici appare, al momento, un battello che può prendere direzioni diverse, a seconda dei venti. Ecco alcuni dei temi e dei personaggi centrali del voto di oggi.

SANDERS, IL TRIONFO ANNUNCIATO E LA CALIFORNIA – Il senatore del Vermont appare il grande favorito del Super Martedì. È davanti nei sondaggi in Texas, Massachusetts, Utah, Virginia, Maine, Vermont. Soprattutto, è dato per vincente in California, che assegna 415 delegati e che è il trofeo più ambito di questo martedì. È dal 2016, da quando perse la California a favore di Hillary Clinton, che Sanders costruisce una rete di militanti e rapporti politici nel Golden State. Lo sforzo potrebbe essere ripagato ora. Secondo gran parte dei sondaggi, Sanders ha accumulato un vantaggio di almeno 17 punti sul presunto secondo, Joe Biden. Giovani, democratici progressisti e ispanici sono il cuore del suo elettorato e dovrebbero essere il motore del suo trionfo. “Con il vostro aiuto, martedì, vinceremo le primarie in California”, ha detto il senatore nel corso di un rally a Los Angeles domenica, di fronte a 24mila persone in delirio. Una vittoria in California sarebbe, per lui, oro puro, accreditandolo come il candidato da battere. Non mancano però le incognite. Quanta fetta di voto nero Sanders riuscirà a strappare, in California e negli altri Stati del Super Martedì? Il voto di sabato in South Carolina ha dato un esito infausto: Sanders è riuscito a intercettare pochissimo elettorato nero. Se vuole accreditarsi come il candidato, il senatore non può permettersi un’altra batosta. Resta poi l’incognita dei sobborghi urbani, dalla Virginia al Massachusetts al Texas. Qui vive un elettorato democratico e borghese, fatto soprattutto di donne, non particolarmente in sintonia con il messaggio socialista di Sanders. Da tenere quindi d’occhio la sua capacità di fare proseliti in queste aree.

BIDEN. È SOGNO O È REALTÀ? – Il Super Tuesday ci dirà se il trionfo dell’ex vice presidente in South Carolina è stato un fuoco di paglia o l’inizio di un vero rilancio. A suo favore c’è un elemento. Oggi si vota in diversi Stati del Sud, con una percentuale significativa di voto nero e quindi con un profilo particolarmente favorevole a Biden. L’Alabama è lo Stato con la maggiore presenza di afro-americani e il vice di Obama potrebbe ripetervi il plebiscito del South Carolina. Un elettorato nero forte è presente anche in Tennessee e North Carolina. Arkansas e Oklahoma hanno poi una tradizione politica moderata che potrebbe guardare con simpatia proprio a Biden. Resta un’incognita. In milioni hanno approfittato dell’early voting e quindi votato prima del 3 marzo: un milione di persone in Texas, 750 mila in California, 792 mila in North Carolina. Questo significa che milioni di voti sono finiti nelle urne prima della vittoria di Biden in South Carolina. Per tutti questi, l’ex vice presidente era un candidato votato all’inevitabile sconfitta – non certo la possibile alternativa moderata a Biden. È un handicap che potrebbe avere effetti negativi sul suo Super Martedì.

IL RITIRO DI BUTTIGIEG E KLOBUCHAR. CUI PRODEST? – L’uscita di scena di Pete Buttigieg ed Amy Klobuchar – quest’ultima ieri pomeriggio, con una decisione comunicata all’improvviso – arriva proprio alla vigilia del Super Tuesday. Chiare le ragioni del doppio ritiro, caldamente sponsorizzato dall’establishment democratico alla ricerca del candidato unitario. Dopo il voto in Nevada e South Carolina, Buttigieg si è reso conto che non avrebbe mai conquistato il voto ispanico e nero. Quindi, che non avrebbe mai conquistato la nomination. Anche Klobuchar, che ha raccolto un misero 3 per cento in South Carolina, ha capito che non sarebbe andata da nessuna parte. Buttigieg e Klobuchar, figli dell’America bianca del Midwest, sono apparsi ieri sera a due diversi comizi di Biden a Dallas (a uno c’era anche Beto O’Rourke, altro ex candidato). Anche per gli standard di una campagna singolare, piena di colpi di scena come questa, è stato uno spettacolo impressionante. L’ala moderata del partito si è improvvisamente riunita contro Sanders, più volte attaccato per il fatto di essere “un ideologo, incapace di portare a casa risultati concreti” (parole di Biden). Possibile che una parte del voto di Buttigieg e Klobuchar – quello dell’elettorato più giovane e progressista – finisca in eredità a Elizabeth Warren. Possibile anche che una piccola percentuale scelga l’altro candidato centrista, Michael Bloomberg. È però altamente probabile che sia proprio Biden il principale destinatario dell’elettorato lasciato libero dal ritiro dei due. Di più: è verosimile che Buttigieg trasferisca proprio a Biden buona parte del suo enorme apparato di finanziatori. E nessuna di queste è una buona notizia per Bernie Sanders.

BLOOMBERG. THE LAST SHOW? – Una tra le campagne elettorali più deliranti della storia americana arriva finalmente al nodo decisivo. Dopo l’assenza dalle liste elettorali nelle prime quattro primarie, due dibattiti tv disastrosi, 500 milioni in investimenti pubblicitari, Michael Bloomberg si presenta finalmente al giudizio degli elettori. “Se pensate che la mia campagna sia costosa, pensate quanto costosi potrebbero essere altri quattro anni di Donald Trump”, ha detto l’ex sindaco di New York, a giustificare una strategia tutta fondata sul potere dei soldi. I sondaggi lo danno al terzo posto in Texas e Carolina, ancora peggio negli altri Stati. Sarebbe per lui un tonfo disastroso. Non si investe mezzo miliardo della propria fortuna per entrare nel “gruppone” indistinto dei democratici. Tanto più che Bloomberg ha cercato di dipingere le elezioni di novembre come uno scontro tra un miliardario, lui, contro un altro miliardario, Trump. Non riuscire a vincere un solo Stato – su quattordici in palio – lo ridurrebbe al nomignolo di “Mini Mike” con il quale Trump usa chiamarlo. Un’umiliazione, per Bloomberg, il suo “ultimo spettacolo” prima dell’inevitabile ritiro.

E SE CAMBIASSE POCO? – Non è un’ipotesi da trascurare. Tutte le proiezioni e i sondaggi indicano una vittoria di Sanders. Il tema però è: quanto ampia sarà questa vittoria? Il sistema elettorale delle primarie sembra pensato apposta per impedire a un candidato di accumulare un vantaggio troppo consistente sugli altri. I delegati vengono assegnati sulla base del numero totale dei voti in uno Stato e dei risultati nei singoli distretti elettorali. Per ottenere delegati, i candidati devono superare la soglia del 15 per cento: una sfida che appare alla portata di gran parte di loro. Questo significa che, senza una vittoria travolgente, Sanders si troverebbe a dividere i delegati con almeno tre-quattro concorrenti. Il gioco dei numeri potrebbe riflettersi nella geografia elettorale: con Sanders forte nel voto giovanile e in quello degli Stati delle due coste; con Biden capace di vincere il Sud e il voto nero; con Elizabeth Warren competitiva tra la borghesia urbana e nelle aree universitarie. Insomma, poco cambierebbe davvero, rispetto alla situazione attuale. E la possibilità di una brokered convention, di una convention contestata e senza un candidato di maggioranza, diventerebbe ancora più concreta.

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