Cinema

La Gomera, un noir tortuoso e scabro ma smaccatamente cinefilo (da Godard a Hitchcock)

Il film del romeno Corneliu Porumboiu arriva in sala dal 27 febbraio

di Davide Turrini

Un noir col fischio. Metti un poliziotto dalla doppia identità silenziosamente innamorato di una femme fatale. Un’enorme somma di denaro rubato. Una banda di mafiosi pronta a tutto. Un’ispettrice della polizia, superiore del poliziotto in questione, non proprio incorruttibile. Infine una lingua fatta solo di fischi emessi con dita dentro la bocca che serve ad eludere il controllo delle forze dell’ordine. La Gomera del romeno Corneliu Porumboiu – in sala dal 27 febbraio – è uno di quei film tortuosi, scabri, e smaccatamente cinefili che vanno seguiti con attenzione e gustati con parsimonia.

Intanto il contesto ambientale. La storia de La Gomera è immersa, appunto, nel contrasto tra un’ambientazione soleggiata e marittima dell’isola delle Canarie ripresa nel titolo, e diversi esterni romeni che a loro volta variano da momenti di pioggia o con una spolveratina di neve fino all’estremo simbolico set western in disuso per la sfida finale tra i protagonisti. Cristi (Vlad Ivanov) è uno sbirro calvo un po’ in là con l’età. Silente, marmoreo, tutto d’un pezzo, un personaggio tipicamente di genere, come del resto la femme fatale, quella Gilda (Catrinel Marlon), avvenente mora da urlo che però nel suo glaciale distacco non permette mai una vera ricognizione sulle sue reali intenzioni nell’accaparrarsi il bottino. In mezzo a loro, come per avvicinarli mentalmente e fisicamente, e allo stesso tempo separarli dalle ovvie trame criminali, c’è questa lingua dei fischi chiamata El Silbo.

Reale espediente comunicativo tra pastori, che qui Porumboiu inserisce come magnetico diversivo per l’attenzione, ma anche come astratto sistema linguistico per screziare la scorza del noir con una sottile ironia da commedia dell’assurdo (i primi quindici venti minuti portano su questa strada). Invece La Gomera è un groviglio translucido e stratificato di segni e dettagli narrativi. Un film che richiede uno sforzo mnemonico e di arguzia allo spettatore per incollare i tasselli del puzzle, chiaramente più leggibili mano a mano che il racconto procede. La regia è stilisticamente debitrice di molti scavalcamenti di campo, come per abbattere improvvisamente quinte e frontalità dello spettatore. Scelta che avviene spesso nelle sequenze in cui la polizia spia Christi, come nelle carrellate ad anticipare le camminate dei protagonisti o viceversa nelle soggettive dei medesimi ad esplorare in avanti gli spazi.

Per concludere il tocco significante a livello di citazioni cinefile esplicite (La donna che visse due volte, Psyco) e di ammiccamenti concettuali che richiamano i più astratti Godard (l’appuntamento al cinema a vedere Sentieri Selvaggi) o ancora veri e propri trucchi visivi sostanziali (l’immagine che pare del racconto presente ma che viene messa in pausa e diventa sequenza registrata dalle videocamere di sorveglianza). Insomma, art house da vero marchio autoriale, magari un po’ a scapito di spettacolarità e charme dei più classici titoli di genere.

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