Un poltrona per tre. Romelu, Bobo e Pier. “Fatti più in là, che turbamento sento arrivar, fatti più in là, già la pressione mi fai alzar”. Il triangolo sì. Per una volta. Anche perché “la geometria non è reato”. Registrato e montato come ai bei tempi a TikiTaka va in scena l’intervista alla celebrità. Variante di gioco. Schema lungamente provato. Ripartenza quando la partita è imbottigliata tutta da una parte del campo. Mestiere, classe, disinvoltura e un pizzico, anzi una manciata, di tono da cabaret. Sullo sfondo le coppe vinte dall’Inter, qualcuna cartonata, un trofeo intrufolatosi da solo da qualche torneo da spiaggia, e pure una coppa del nonno.

Sgabellati e contenti Vieri intervista Lukaku. Scavallato sornione di campo Pardo. E di che vuoi parlare con un puntero che segna a bomba come Romelu? I compagni. “Obrigado mister”. Facciamo una bella gara. Facciamo un bel campionato. Mi alleno, mi concentro, lavoro sodo. Yawn. Invece, nel triangolo che avevamo considerato, si scherza, si gioca, si palleggia. Bobo, chiaramente, è uno da sfuriata. Uno che parte come per inerpicarsi sul Monte Bianco. Zaino in spalla pieno di subordinate, parentesi, masticazione rapida dell’album Panini. Il fraseggio dell’intervista è una paloma blanca che svolazza lontano, invisibile anche agli occhi di marinai esperti della parola. Fosse per lui dopo averla sparata si chiuderebbe lì. Tutto il resto gli correrebbe dietro. Come un Benarrivo o un Nesta qualunque.

“Chi fa gol in Italia può farli in tutti il mondo”, calcia granitico il bomber. Tra il buono, il brutto e il cattivo, Bobo sarebbe Sentenza (Romelu il Biondo e Pier è Tuco?). L’armadio belga a sei ante è disinvolto, sciolto. Solfeggia in varie lingue. Con quel faccino da bimbo appollaiato lassù in alto in quel corpo da wrestler fa quasi tenerezza. Simpatico, spiritoso, preparatissimo. Perché se con un calciatore non ci cavi un ragno dal buco, nemmeno a ferragosto in una sala giochi di Milano Marittima, nemmeno se lo porti all’Olgettina con il catalogo premio di Jerry Calà in Vacanze in America, a Lukaku gli mostri i filmati di Adriano e gli luccicano gli occhi. Tre mancini sul comò di TikiTaka. Saccagnate e sciabolate a sfondare le reti. Curve iperboliche del pallone. Lukaku fibrilla come un cucciolo. “È simile a Bobo”, dice lui, e il compagno, amico, dirimpettaio di via Moscova (“ci siamo visti al ristorante qualche giorno fa”) rilassa i muscoli della mascella volitiva.

Niente linguacce e occhioni sgranati alla Kiss, come accade in studio sul divanone bianco. Vieri per un giorno primo della classe, con Garrone Pardo a ricucire la trama e a fornirgli gli assist. Poi all’improvviso il filmato lampo che ci genuflette tutti come davanti alla dea Kali. Settembre 1999. Inter-Parma. Il bomber bolognese, bello, onesto emigrato Australia appena fuori dall’area di rigore, dalla parte destra di San Siro, riceve spalle alla porta un passaggio corto col sinistro, in mezzo secondo si gira di 90 gradi e ancora di sinistro centra la porto sotto l’incrocio dei pali. Lukaku piange. Pardo sprofonda ebbro nella quinta oscura. Ora però Bobo facci la grazia: toglici quel peregrino blocco da Twitter. Non ti abbiamo mai fatto nulla, se non qualche inutile tag. Siamo rimasti senza benzina, avevamo una gomma a terra, la tintoria non ci aveva portato il tight, c’era il funerale di nostra madre, è crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa nostra.

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