Quelle tasse non erano dovute, ma guai a chi prova a farsele restituire. Parliamo delle addizionali provinciali all’accisa sull’energia elettrica per il 2010 e il 2011. Un caso paradossale che sta creando non poco imbarazzo tra gli addetti ai lavori. Ad essere coinvolti sono i titolari di utenze elettriche non domestiche, i loro fornitori di energia e gli enti pubblici che in quegli anni hanno incassato, sotto la voce dell’addizionale, una somma compresa tra 1,3 e 4 miliardi di euro. E ora dovrebbero restituirli ma, giustizia permettendo, potrebbero anche riuscire a non farlo.

Un recente e controverso verdetto della Corte di Cassazione, ha riacceso gli entusiasmi per la partita iniziata a fine 2011, quando il governo di Mario Monti ha abolito con un colpo di spugna le addizionali entrate in contrasto con una direttiva comunitaria e le ha sostituite con un rincaro delle aliquote dell’imposta erariale di pari portata economica: 2,1 miliardi l’anno, incluse le addizionali comunali. I più attenti tra i titolari delle utenze, di conseguenza, si sono subito attivati per ottenere il rimborso di quanto pagato e, in molti casi, hanno bussato alla porta dell’Agenzia delle Dogane che sotto quella voce per il 2010 e il 2011 ha riscosso 1,245 miliardi e che al momento conta una cinquantina di vertenze pendenti in Cassazione.

Sette anni dopo arrivano i primi giudizi definitivi e le sentenze che riaprono degli spiragli, come quella che riguarda la Laminazione Sottile. La società campana, come risulta dal verdetto pubblicato a fine 2019, ha visto riconosciuto il proprio diritto ad essere rimborsata. Ma in linea teorica, dato che non può passare direttamente alla cassa, perché ha bussato alla porta sbagliata. Secondo i giudici, infatti, il consumatore di energia dovrebbe chiedere il rimborso non al destinatario finale dell’imposta, bensì al proprio fornitore che a suo tempo gli aveva fatto pagare la tassa in bolletta.

In questo modo il venditore di energia viene considerato il vero destinatario dell’imposta che si è rivalso sul consumatore, inserendo il costo in bolletta. E così il fornitore, sostengono ancora i togati citando il Testo Unico delle Accise, a sua volta può rivalersi sulle Dogane o sulle Province, ma solo e soltanto se è stato condannato in via definitiva a risarcire quel suo specifico cliente e a poco vale citare le sentenze già emesse che non fanno giurisprudenza, ma valgono ognuna per il singolo caso che le ha richieste. Ammesso e non concesso che nel frattempo non intervenga una pronuncia superiore che non gli precluda il rimborso.

Dunque, ricapitolando, chi ha pagato non può essere risarcito prima di aver fatto causa al suo fornitore di elettricità e di aver vinto in tre gradi di giudizio. Chi ha intermediato deve far fronte alle cause dei suoi clienti e scegliere tra la convenienza di sostenere le spese legali e processuali e quella di evitarle rimborsando subito il cliente, ma rischiando di non riavere indietro nulla. Dal canto suo l’ente pubblico si attiene scrupolosamente alle sentenze e non esce dai binari prestabiliti finché non arriva un’indicazione politica chiara. D’altronde, è l’argomento di replica, si deve tutelare dalla Corte dei Conti che certo non permette di ridistribuire il denaro dello Stato se carta non canta.

Il ragionamento non fa una grinza, in teoria. In pratica però resistere in giudizio ha un costo che non è solo quello del tempo del funzionario interno – che pure è il costo del funzionario sottratto ad altri incarichi – ma ci sono le eventuali spese processuali e anche l’utilizzo dell’Avvocato dello Stato per la Cassazione che, seppure non a carico dei singoli enti, ha un costo per l’Avvocatura. E quindi per lo Stato. Calcolare il rapporto costi/benefici, però, non figura tra i doveri dei nostri civil servant e farlo non spetterebbe certo all’Agenzia delle Dogane. Tanto più che, sottolinea l’ente interpellato in merito, “non v’è alcuna pronuncia degli Organi Comunitari che dichiari incompatibile l’Addizionale con la Direttiva 2008/118, per cui ciò che sarà oggetto di rimborso potrà essere determinato solo a seguito del passaggio in giudicato delle vertenze pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione”.

La questione è ben presente ai fornitori di energia, che sono circa 600, si trovano esattamente tra l’incudine e il martello e temono proprio di restare col cerino in mano per opera della Corte dei conti o della Corte costituzionale, citando il caso della sentenza della Consulta sul parziale ristoro dei pensionati stabilito dal decreto Poletti con quello che, secondo i giudici, era stato “un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica”.

Quello però era un caso da 30 miliardi di euro. Questo invece rischia di essere molto impegnativo sia per le imprese del settore, sia per le aule dei tribunali. Ma anche per la Confindustria che riunisce le due anime della contesa: le imprese clienti e quelle fornitrici di energia. Non a caso, l’associazione degli Industriali ha recentemente chiesto un pronunciamento al ministero delle Finanze che ancora si fa attendere.

Quest’ultimo, interpellato in merito da ilfattoquotidiano.it, non ha voluto commentare il caso. Forse anche perché, sostengono i più maliziosi, sta pesando il rischio: sebbene per centinaia di migliaia di soggetti le cifre in gioco siano importanti, per la maggioranza delle imprese consumatrici parliamo di somme molto basse. La sintesi di un imprenditore che abbiamo interpellato è lineare: “Faranno un calcolo statistico: 100 sono quelli che hanno pagato, 50 sono quelli che chiedono, 20 desistono, alla fine rimborseranno il 10% e quindi per la legge dei grandi numeri gli conviene resistere”.

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