Nel film The Day After il protagonista ci mette qualche tempo per uscire dal bunker antiatomico. Una volta fuoriuscito dalla sua trappola salvifica, incontra un mondo di desolazione abissale, di grigio assoluto. Un mondo di pulviscolo svolazzante che rappresenta la condizione di distruzione totale. Dove quello che c’era non è semplicemente assente (il che potrebbe risultare quasi intrigante) ma è stato tragicamente reso immateriale, irriconoscibile. E’ stato degradato a pulviscolo che c’è ma non è più ricostruibile.

Questo è quanto accade a chiunque, uscito dal bunker dorato del Natale, getti l’occhio sul sistema giudiziario italiano del 2020. Per sempre sarà l’anno del fungo atomico scaricato sul sistema giustizia dal Legislatore della contemporaneità. Questo è l’effetto della riforma della prescrizione (come viene educatamente chiamata dai killer legislativi e dagli aedi di questa).

È perfettamente inutile passare in rassegna la pioggia di principi giuridici che sono stati macellati con questa iniziativa. Semmai è più utile, al fine di cogliere la “profondità di sistema” della riforma, immaginarne gli effetti paradossali e bizzarri: il “fine processo mai” può regalare al delinquente un “inizio pena mai” (atteso che resiste il principio per cui la sanzione si applica solamente quando la decisione è passata in giudicato).

Forse è per questo motivo che i fieri bardi del transumanesimo giudiziario si sono affrettati a richiedere la cancellazione del secondo grado di giudizio e l’introduzione della reformatio in peius per coloro che, impunemente, osano proporre ricorso contro una sentenza di condanna di primo grado.

Tuttavia il diritto, coi suoi principi sacri, non ha ragion d’essere e questo perché non è un protagonista della contemporaneità. Se questa novità legislativa ha un merito è quello di aver scoperchiato, anche per la funzione giudiziaria, ciò che è già oggetto di dibattito culturale in tutti gli altri ambiti del sapere e cioè che “Dio è morto”. Nietzsche, a corollario di questa sua caustica affermazione, aggiungeva che ci sarebbero voluti decenni prima che un’affermazione così gravida di conseguenze inimmaginabili potesse essere compresa. È stato vero. Per la giustizia ci sono voluti 120 anni esatti (1900-2020).

“Dio è morto” sta a significare che i valori sono crollati (e sin qui, aggiunge Nietzsche, lo sanno anche al mercato). Ma ciò che più conta è che non c’è all’orizzonte una risposta alternativa (non certamente andando a raccogliere i brandelli della distruzione totale dopo il Day After). L’unica risposta possibile sembra essere quella nichilista, interpretata dal trionfo della tecnica. Questa tecnica, di cui la tecnologia e cioè gli apparati di cui ci circondiamo sono solamente l’effetto visivo, consiste in una strategia culturale di pensiero sorretta da due pilastri fondamentali: l’efficienza produttiva (cioè la “ragione strumentale” di Horkheimer) e l’assenza di etica, cioè di limite.

L’etica cattolica (basata sul limite dell’intenzionalità del fare) è un costo di produttività “all’ingresso” insopportabile; l’etica weberiana (fondata sugli effetti) è, del pari, un costo altrettanto inaccettabile, ancorché posto “in arrivo”. Il razionalismo della produttività deve poter agire senza limite alcuno. Questo ambiente culturale e cognitivo trova, nell’acquario della giustizia, un detonatore che ne fa esplodere gli effetti.

In questa spirale nichilista interviene, infatti, come un serpente tentatore, il “coté” pop della giustizia e cioè la narrazione extragiudiziaria dei casi giudiziari, trasformati in un reality show completamente disancorato dal processo (come invece accadeva per la giustizia mediatica che era servente al sacro, cioè al processo). Il “crime” è così reso e merce e “circences” per le serate del nichilista contemporaneo. La pop justice gioca sul vertiginoso e sull’assenza di distinzione tra bene e male, trasformando il crimine in una case-history che ha valore sino a quando stuzzica i palati della mensa “all you can eat” del gioco manicheo tra sangue e giustizia e solletica il pornografico “alla Baudrillard”.

La giustizia pop e il “crime” come genere pornografico-emozionale non può avere una fine, perché vorrebbe dire togliere una merce dal mercato e dal bazar dei prodotti “che vendono”. Ed ecco allora l’alleanza tra “morte di Dio”, cultura dell’efficientismo produttivo della tecnica e giustizia come merce vertiginosa. Questa fame di produzione senza limiti invade così anche il diritto e la giustizia, annullando il limite più netto del “logos” giudiziario: la prescrizione (Manzini, non a caso, diceva che “la prescrizione fulmina il reato”).

Le conseguenze? Ancora una volta non ha senso di parlare di quelle giuridiche: sarebbe un ennesimo scorrere i grani consunti del rosario giuridico. Deve invece esserne evidenziato l’effetto culturale: l’assenza di futuro. Il futuro è una categoria nata con il cristianesimo che ha stabilito che il passato è peccato (originale); il presente redenzione e il futuro speranza e resurrezione (Galimberti). Questo concetto è divenuto fondamentale per l’intera cultura occidentale e ne ha rappresentato il fondamento più profondo, basti pensare al marxismo, alla dottrina di Freud o, ancora una volta, al diritto (non avrebbe alcun senso l’articolo 27 della Costituzione e la rieducazione del condannato se non esistesse questo “telos” dell’Occidente).

La fine della prescrizione è semplicemente questo: la certificazione che, anche per il mondo della giustizia, Dio (cioè il limite, il “metron” dell’antica Grecia) non esiste più. Rimane solamente la cultura e l’etica dell’esecuzione efficiente, immediata e senza interesse alla redenzione offerta dal futuro. E’ l’etica stigmatizzata da Gunther Anders, laddove ha sostenuto che la messa in congedo della cultura dell’umanesimo a favore della cultura della tecnica ha reso il nazismo “un teatrino di provincia” oppure da Gitta Sereny che, intervistando il pilota che scaricò l’ordigno nucleare su Hiroshima, disse: “era il mio lavoro”. Buon lavoro, operatori giudiziari: era il vostro lavoro.

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