Lustratevi gli occhi. In Concorso al 37esimo Torino Film Festival arriva il film che fa saltare il banco. S’intitola El Hoyo/The platform ed è un horror sci-fi opera prima dello spagnolo Galder Gatzelo-Urrubia, finito già sul listino Netflix. Uno di quei film che dopo averlo visto avrete un po’ meno voglia di abbuffarvi di cibo e, si spera, di solidarizzare un po’ di più con chi ha meno possibilità di voi di mangiare. Sulla falsariga di quella traiettoria alto-basso declamata ne L’odio (“fino a qui tutto bene”, “il problema non è la caduta ma l’atterraggio”) senza preambolo alcuno Gatzelo-Urrubia immerge lo spettatore in una dimensione spaziale inedita e peculiare.

Goreng (Ivan Massagué) è segregato – scopriremo dopo pochi minuti che l’ha fatto in modo volontario – in una torre/prigione dove i detenuti, due per piano, vengono nutriti grazie ad una piattaforma piena di leccornie che ogni giorno dal primo piano scende verso i piani più bassi (100, 200, 300, non si sa). La piattaforma si ferma un paio di minuti ad ogni piano. Se qualcuno ruba e si infila in tasca pezzi di cibo per mangiarseli più tardi il piano viene surriscaldato tipo altoforno e congelato come un freezer. Ovviamente più sei in alto più mangi. Mentre chi sta giù in fondo si ritrova con i piatti vuoti. Dimenticavamo: ogni mese i detenuti vengono cambiati di piano a loro insaputa, ma soprattutto ognuno di loro prima di entrare nella torre ha dovuto scegliere un oggetto da portarsi con sé. Goreng ha preso un libro, il Don Chisciotte di Cervantes, mentre il suo sconosciuto compagno di piano, un vecchietto inquietante, ha pensato bene di infilarsi in tasca un coltellazzo da cucina acquistato nelle televendite tv.

E il vecchio adagio, si sa, dice che quando l’uomo col coltello incontra l’uomo con il libro… Voilà, El Hoyo è servito. Un film folle, dirompente, tritatutto e senza un attimo di tregua. Un survival movie impregnato di sangue, budella, carne, pesce e dolci smozzicati, che sviscera fuor di metafora lo iato tra solidarietà collettiva ed individualismo spinto, in un girone infernale dove le carte dell’ascesa e discesa sociale si rimescolano in continuazione proprio come nel destino della vita reale. In sottofondo c’è sempre questo gusto acidulo per il macabro truculento, anche se ciò che colpisce, oltre ai fondamentali e curatissimi corpi e cibarie in dissoluzione, è la dimensione generale dell’immaginario creativo.

Gatzelo-Urrubia crea ex novo un mondo/spazio/luogo/set senza aver debiti cinefili pendenti. Chiaro la tessitura del racconto è tra il mondo cannibale e lo splatter, ma l’energia con cui l’azione si fonde nel racconto è tutta frutto di una riflessione allegorica classista alla base che per rimanere in Spagna potrebbe avere giusto un padre simbolico in un carnaio bunueliano. La verticalità dello scontro di classe è la lettura dovuta e possibile. Il desiderio di soppressione di quelli che stanno di sotto, nel tentativo sempre fallito di accordarsi con quelli che stanno sopra, sa di fallimento autentico ben oltre il piano simbolico dell’arte. E attenzione, perché se si pensa ad un film come Parasite, pur con le dovute cautele per gli stili differenti, il sangue del massacro che cola per posizionarsi più in alto nella scala socio-economica è identico.

Un fil rouge filosofico e politico che a Torino 37 sempre in Concorso ritroviamo nel film cileno Algunas Bestias. Altra opera prima diretta da Jorge Riquelme Serrano che vede una famigliola borghese bloccata in un’isoletta remota poco fuori la costa cilena nel loro rustico chalet in mezzo al bosco. Borghese fino a un certo punto. Nel senso che l’ipocrisia generale della famiglia lo è senza dubbio, ma è una verticalità familiare metaforicamente classista a mettere in cattiva mostra lo scricchiolio contemporaneo tra generazioni. Nonno e nonna sessantenni ricchi possidenti di terre e immobili; figlia e genero quarantenni con tante idee innovative, web e ecofriendly, ma privi di fertile pecunia; nipoti a cavallo della maggiore età letteralmente privi di indipendenza e personalità, in balia di genitori e nonni.

La scintilla che fa saltare la zoppicante pax familiare avviene quando il ragazzo, aiutante, factotum (sull’isola non c’è acqua potabile e non c’è linea per i telefoni), insomma un servo purissimo, accusato di ogni cosa e corteggiato sessualmente dall’affascinante nonna scappa con il barchino senza lasciare traccia. Il gioco al massacro si compie tra lunghi e ipnotici piani sequenza, soprattutto in interni, dove spesso tutti gli attori sono in scena a recitare il graduale tragico sfaldarsi della famiglia. Un cupio dissolvi compiuto tra calici di raffinato vino rosso e cancri lanciati per il mancato prestito di denaro dei suoceri, dovuto principalmente al perverso desiderio di comando dei nonni ricchi che impongono perfino un orrendo e viscido incesto nonno-nipote femmina. Alfredo Castro (l’attore feticcio di Pablo Larrain, e non solo) è il felpato e vomitevole nonno violentatore in un’interpretazione davvero al limite.

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