Sostituisce due parole: dove c’è “direttore” comparirà “comandante di reparto”. In questo modo sarà modificato l’ordinamento penitenziario italiano. L’effetto che avrà? Alcune funzioni che in passato spettavano al primo ora passeranno al secondo. Come il compito di sanzionare gli agenti che si comportano in modo scorretto o quello di autorizzare l’uso delle armi all’interno delle carceri. A prevederlo è il decreto legislativo sul riordino delle forze dell’ordine attualmente al vaglio delle Commissioni parlamentari. Secondo il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) il testo è pensato in un’ottica di “funzionalità organizzativa” e corregge una stortura segnalata da anni anche dai sindacati. Per l’associazione Antigone, invece, rischia di trasformare gli istituti di detenzione in luoghi di “mera custodia, non più votati al reinserimento sociale dei reclusi”. Allarme in parte condiviso anche dall’Unione camere penali, dai Garanti territoriali di tutta Italia, dai magistrati di sorveglianza e da oltre 130 dirigenti penitenziari. Questi ultimi hanno chiesto a Palazzo Chigi di fare un passo indietro e mettere mano alla riforma. Una spaccatura che si riflette anche in Parlamento, con il Movimento 5 stelle, il Pd e LeU che non hanno ancora deciso come muoversi.

I nodi più controversi del provvedimento, voluto dal governo gialloverde e confermato da quello attuale, riguardano le modifiche che vengono apportate al decreto legislativo n. 449 del 1990 sulle sanzioni agli agenti penitenziari e al regolamento n. 551 del 1992 in materia di armi. In entrambi i casi il potere decisionale passa dal direttore (che per legge non deve appartenere ad alcun corpo dello Stato) al comandante di reparto “con qualifica di primo dirigente”. Sarà lui quindi a decidere quando un agente che ha usato in modo immotivato la violenza deve essere multato o quando è opportuno ricorrere alle pistole per garantire la sicurezza degli istituti. La senatrice pentastellata Bruna Piarulli, in passato alla guida del penitenziario di Trani, chiarisce in una nota che “la figura rieducativa e risocializzante della pena resta il macro-obiettivo della legalità e il direttore resta il vertice del carcere”. Per il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza, invece, si tratta di “disposizioni che paiono esorbitare dagli obiettivi di mera riorganizzazione perseguiti” dal decreto. L’Unione camere penali si spinge addirittura oltre, denunciando il rischio che ci sia “una vera e propria militarizzazione del carcere” a discapito “del trattamento dei detenuti”. “La nostra paura”, aggiunge il coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri di Antigone Michele Miravalle, “è che in futuro possano prevalere altre logiche rispetto a quelle attuali. Magari danneggiando realtà che oggi sono all’avanguardia”. Come la casa circondariale di Bollate, nel milanese – considerata una delle più avanzate d’Italia – dove i detenuti si occuperanno del tema nel prossimo numero del loro giornale CarteBollate.

A sollevare ulteriori polemiche, però, è anche un altro punto della riforma. L’articolo 29, intervenendo direttamente sulla legge che istituì negli anni Novanta il corpo di polizia penitenziaria, specifica che gli agenti hanno doveri di subordinazione gerarchica nei confronti del direttore dell’istituto solo “se il comandante del reparto riveste la qualifica inferiore a primo dirigente”. Raggiunto questo rango, la dipendenza diventa di “carattere funzionale”. Cosa significa? Secondo Miravalle è un “ulteriore indebolimento” della figura del direttore, il quale dovrebbe fare da “garante” alle diverse aree professionali presenti in carcere “così come prescritto dalla Costituzione e dalle Regole penitenziarie europee”. In base a quanto dichiarato dal capo del Dap Francesco Basentini durante la sua audizione al Senato, invece, “è stata fatta una scelta di coerenza amministrativa e giuridica”. Il perché lo chiarisce al fatto.it il segretario generale del sindacato Osapp Leo Beneduci: “I direttori non hanno qualifiche di polizia né di sicurezza e non appartengono alla stessa carriera degli agenti penitenziari, ma possono comunque dare ordini. È un paradosso che non esiste negli altri corpi dello Stato”. A suo parere, quindi, “basterà la dipendenza funzionale affinché continuino ad esercitare la responsabilità massima negli istituti. Tutte queste polemiche testimoniano solo un desiderio di potere”.

La parola spetta ora ai parlamentari, chiamati dal governo a esprimere un parere sul decreto e a suggerire eventuali modifiche prima del via libera finale. Ma nella maggioranza rischia di aprirsi un nuovo scontro: mentre il Movimento 5 stelle si dice favorevole alla riforma, la senatrice di Liberi e uguali Loredana De Petris spiega che il testo “ha colto tutti di sorpresa”, viste le sue “evidenti sfumature figlie del precedente governo. Vorrebbe sanare la progressione di carriera della polizia penitenziaria, ma al suo posto offre un contentino che produce solo danni”. Preferisce non parlare, invece, il dem Emanuele Fiano, nonostante sia il relatore del decreto in Commissione Affari costituzionali a Montecitorio. I chiarimenti, è stato assicurato al Fatto.it, arriveranno dopo che verranno sentite in audizione tutte le parti in causa.

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