di Claudia De Martino*

Recentemente (l’8 novembre scorso) l’ex ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley è stata insignita del prestigioso premio del Congresso mondiale sionista “Herzl”, assegnato a coloro che si sono distinti nella difesa di Israele e dei suoi interessi. Sostenitrice delle posizioni revisioniste dell’attuale presidente Usa Donald Trump nel conflitto israelo-palestinese, in passato si è battuta per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale indivisibile dello Stato di Israele e per la decisione di tagliare i fondi americani ai rifugiati palestinesi e all’Unrwa.

All’atto del conferimento del premio, la diplomatica ha dichiarato: “La faziosità dell’Onu ha a lungo impedito il raggiungimento della pace, incoraggiando coloro che credevano che un giorno lo Stato di Israele sarebbe sparito. Ebbene, Israele non sparirà affatto e quando il mondo riconoscerà questo fatto semplice, la pace diverrà possibile”.

Lo stesso giorno il Primo ministro ad interim Benjamin Netanyahu nominava nuovo ministro della Difesa dell’attuale governo di transizione (Israele non riesce a formare un nuovo governo dopo due tornate elettorali succedutesi a pochi mesi di distanza) Naftali Bennet, il capo del partito della ex “Nuova Destra” (ora confluita nel Likud). Considerato un “falco”, Bennet è desideroso di mettere definitivamente fine al “problema di Gaza”, ovvero di arrestare una volta per tutte i lanci di missili che periodicamente provengono dalla Striscia da parte di Hamas o della Jihad Islamica, rimpiazzando l’attuale strategia della “deterrenza” con attacchi militari preventivi.

Lo stesso Bennet, israeliano di origini americane, aveva salutato la vittoria elettorale del presidente Trump nel novembre 2016 come “un’opportunità per Israele di ritrattare immediatamente la volontà di creare uno Stato palestinese al centro del Paese”, una scelta che avrebbe danneggiato tanto la sua sicurezza che la sua causa. La “causa” a cui Bennet alludeva all’epoca era ovviamente il progetto di continua espansione di Israele in tutta l’attuale Cisgiordania (il “Grande Israele”), o almeno in tutte le cosiddette “terre utili”, ovvero quelle comprese nell’area C prive di ampi insediamenti palestinesi.

Bennet non si sbagliava: il suo annuncio è stato davvero profetico perché la presidenza Trump, per la prima volta nella storia, potrebbe arrivare ad archiviare il conflitto israelo-palestinese senza nemmeno produrre il tanto sbandierato “Accordo del secolo”, ormai inesorabilmente congelato, ma semplicemente derubricandolo a conflitto locale a bassa intensità tra lo Stato di Israele ed uno o più gruppi terroristici (Hamas e la Jihad islamica a Gaza, Hezbollah a nord).

In linea con altre scelte analogamente pragmatiche quanto imprevedibili della presidenza Trump in Medio Oriente (il parziale ritiro dalla Siria e l’abbandono dei curdi, la mancata protesta contro l’operazione militare di Ankara in Siria e il suo acquisto di missili S400 russi nonostante l’adesione alla Nato, il ritiro Usa dall’accordo nucleare con l’Iran, ecc.), la dichiarazione rilasciata dal Segretario di Stato Mike Pompeo lo scorso 18 novembre è tesa a sovvertire la logica tradizionale con cui si interpreta il conflitto: un caso che non si presenta più come una questione legale, come dichiarato nel 1978 dal Presidente Jimmy Carter, ma come una questione politica fluida, come piuttosto sostenuto dal presidente Ronald Reagan nel 1981.

Sempre nelle parole di Pompeo, il diritto internazionale “non porterà alla pace” e “la presunta illegalità degli insediamenti israeliani non ha mai avanzato una soluzione”, così come la decisione su chi abbia colpa o ragione (riflessione annosa e inutile, nelle parole del politico Usa), perché si tratta di una questione complessa che può essere risolta solo da un accordo politico definitivo e diretto tra le due parti, nel rispetto della sicurezza e del benessere di entrambe.

La narrativa dell’amministrazione Trump si vuole aperta, liberale, conciliante, e le sue posizioni rispetto al conflitto israelo-palestinese vengono svelate a piccoli passi, prendendo atto della natura incontrovertibile dei rapporti di forza sul terreno e senza più nessuna intenzione di cambiarli. Il XXI secolo inaugura così un’epoca non ideologica, in cui anche la superpotenza Usa, che un tempo si voleva alfiere del mondo libero e difensore dei diritti umani, oggi impronta la sua politica estera a uno stretto realismo, ovvero alla mera difesa degli interessi americani.

E tra questi risulta anche il progressivo alleggerimento degli impegni Usa in Medio Oriente, inclusi gli sforzi che ogni amministrazione Usa ha prodigato negli ultimi quarant’anni per giungere alla risoluzione della questione palestinese. Trump potrebbe annunciare in maniera ancora più schietta che il conflitto tra Israele e i Palestinesi non lo riguarda affatto: “It is none of his business”. Su un punto almeno avrebbe perfettamente ragione: il conflitto israelo-palestinese non è una questione legale. Si trattava inizialmente della lotta per la condivisione di una stessa terra da parte di due popoli, uno dei quali ha perso la battaglia militare, politica, e infine anche culturale per le menti e i cuori dell’opinione pubblica internazionale, che infatti lo ha dimenticato.

Così il cerchio si chiude: il premio Herzl va a celebrare la sempre più stretta amicizia di Israele con l’alleato di sempre (gli Usa), da tre anni a questa parte effettivamente impegnato a mettere fine al conflitto israelo-palestinese a colpi di revisionismo storico.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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