Una giovane mamma e suo figlio sono seduti a tavola, in un bar. Lui, al massimo sette anni, cerca di attirare l’attenzione di lei in tutti i modi: la chiama per nome, sbatte le posate sul piatto, si agita, gira intorno al tavolo, corre da una parte all’altra del locale. Non vuole rassegnarsi al fatto di non essere considerato. Lei però lo ignora, per il più contemporaneo dei motivi: ha gli occhi incollati al telefono e i pollici che scorrono frenetici sullo schermo. È così da quando sono arrivati, sarà così fino a quando i due non decideranno di pagare il conto e andarsene. Questa scena, vista e rivista, succede ogni giorno: è l’esempio di come il mondo digitale o virtuale possa essere – anche – pericoloso. Crea bolle invisibili che avvolgono gli utenti in un universo silenzioso, fatto di risposte immediate e personalizzate: per questo, più appetibile del mondo reale. Il rischio più grande si chiama IAD – Internet Addiction Disorder, la dipendenza patologica da Internet. Paolo Del Debbio, giornalista conduttore di Dritto e Rovescio, ne scrive nel suo nuovo libro Cosa rischiano i nostri figli, edito da Piemme.

Il primo a catalogare questa forma di dipendenza fu lo psichiatra americano Ivan Goldberg, della Columbia University, nel 1996. Le vittime principali della IAD sono gli adolescenti, i cosiddetti “nativi digitali”: in Italia, riporta Del Debbio, sono circa 300mila. Il giornalista li differenzia da quelli che chiama “immigrati digitali”, cioè gli adulti: questi ultimi al digitale sono arrivati un passo alla volta, imparandone il linguaggio a fatica, chi meglio chi peggio. I “nativi” invece – la Generazione z, classe 2000 o giù di lì – ne hanno respirato l’atmosfera da subito. Per loro, “entrare in simbiosi con tutti i dispositivi dell’evoluzione tecnologica” non è stato un problema, ma un processo quasi inevitabile. Del Debbio li chiama “Generazione Polaroid”: “Hanno i tempi di una Polaroid, esigono i tempi di una Polaroid, vivono con i tempi di una Polaroid. I social li hanno abituati così”.

Effetti collaterali? Sì, tanti. Per esempio, un’ansia sempre più diffusa e chiamata Fomo (Fear of Missing Out): “La paura di essere tagliati fuori” e la conseguente esigenza di essere sempre connessi, a tutto, riducendo progressivamente le attività che non riguardano il controllo ossessivo di notifiche e messaggi. Oppure, la nomofobia, dove “nomo” è l’abbreviazione di no-mobile, cioè l’angoscia di stare senza smartphone. Ancora: il vamping, termine che descrive il controllo notturno dei messaggi fatto da molti ragazzi, come fossero vampiri “che attendono la notte”. Il sonno infatti non sembra essere immune da chi accusa sintomi da IAD: Del Debbio cita l’ultimo rapporto Agi-Censis, secondo il quale “la gran parte dei malati del web è in rete anche prima di dormire (77,7%) e subito dopo la sveglia (63%). Il 61,7% utilizza cellulari e tablet anche a letto (tra i più giovani si sfiora l’80%) e il 34% a tavola”. Poi ci sono i fenomeni estremi, che vanno a ripercuotersi sulle altre persone: cyberbullismo e revenge porn in testa.

La dipendenza da web crea solitudine, apatia e chiusura verso il mondo esterno. Del Debbio nota alcune affinità con l’hikikomori, condizione psicologica di livelli estremi di isolamento individuata circa 40 anni fa in Giappone. Il rifiuto per il mondo reale, inoltre, fa aumentare le fila dei Neet (Not in education, employment or training), cioè coloro che non sono occupati, né inseriti in un percorso di istruzione o formazione.

Ma come fare per aiutare chi soffre di IAD? In sintesi, ricorrere agli esperti: “Da questa malattia, come da ogni malattia, fisica o psichica che sia, non si esce con l’affetto. E neanche con l’amore. Se ne esce curandola, affidandosi a chi la ha competenza, l’esperienza e i mezzi per farlo”. Non solo: famiglia e scuola sono due pilastri essenziali. Il dialogo – lento, ma efficace, dice Del Debbio – è la porta per uscire dall’isolamento da tastiera: “Lo smartphone può attendere”.

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