Non sono bastate quattro consultazioni in quattro anni per sciogliere il nodo che tiene la Spagna bloccata, ferma su se stessa mentre l’economia rallenta e il fuoco della ribellione separatista ha lasciato una coltre di fumo sulla convivenza civile. Non è un caso che gli accorati appelli alla partecipazione lanciati dai leader politici di sinistra siano caduti nel vuoto: a distanza di sei mesi dalle ultime elezioni, infatti, si è registrato un calo dell’affluenza alle urne.

Dato che non può meravigliare: c’è uno scollamento tra la base e i leader, tra il popolo e la classe dirigente. E’ difficile spiegare perché in sei mesi i socialisti di Pedro Sánchez e la sinistra più radicale di Pablo Iglesias (Unidas Podemos) si siano guardati con sospetto non riuscendo a trovare un’intesa, mentre solo ad urne aperte il secondo ha avvertito l’urgenza di dichiarare che un accordo dopo il voto è sempre possibile.

È ancora più difficile comprendere quello che da anni accade in Catalogna, con lo Stato centrale incapace di trovare qualsiasi soluzione riformatrice; anche una proposta in chiave federalista appare ardita nella politica spagnola. Per contro le istituzioni regionali – con in testa la Generalitat – si mostrano capaci di tutto, persino di rappresentare, con poco pudore, solo quella parte di Catalogna che anela la separazione da Madrid.

Le elezioni-lampo non hanno smosso le nubi che si addensano sui palazzi della politica.

Gli indipendentisti catalani sono distanti dalla maggioranza su base regionale (raggiungono il 42%) ma possono giocare un ruolo di primo piano nel Congresso di Madrid. Esquerra Republicana, con un bottino di 13 deputati può incidere con un voto a favore di una coalizione di sinistra, ipotesi allo stato poco praticabile, o con una astensione.

E’ già chiara la posizione della Cup, la formazione di sinistra radicale per l’indipendenza catalana entra in Parlamento con due seggi con un obiettivo dichiarato: soffiare sul fuoco della instabilità a Madrid per spingere più in là la causa separatista.

In un sistema che rischia di saltare, vuoto di ogni sostanza politica, nella notte delle consultazioni che dovevano sbloccare lo stallo l’unico dato positivo si rivela nell’efficienza della macchina elettorale, dopo appena un’ora dalla chiusura delle urne si conosceva il dato reale sull’80% delle schede scrutinate. Troppo poco aggrapparsi alla burocrazia che funziona in un paese che in politica naviga a vista.

Così nelle acque stagnanti della ingovernabilità avanza la forza anti-sistema, la Spagna di “España, lo primero”, l’affermazione del sovranismo in salsa iberica. Vedendo raddoppiare i consensi e i seggi di Vox (da 24 a 52) la Spagna non è più l’eccezione d’Europa, l’estrema destra esce da posizioni marginali e segna una crescita rilevante, come nel resto del Continente.

“España, lo primero” prende forma nel programma del partito di Santiago Abascal, sanità pubblica solo per gli spagnoli, ticket per i residenti legali, nessuna assistenza sanitaria per gli immigrati illegali. E ancora, in un paese multilingue, supremazia della lingua spagnola, messa al bando dei partiti e delle associazioni separatiste, reintegrazione del promontorio di Gibilterra nel territorio nazionale ma resistenza ferma nel mantenimento di Ceuta e Melilla, enclavi di Madrid in suolo africano.

La radicalizzazione ha quasi cancellato il centro liberale di Ciudadanos, condannato all’irrilevanza.

Una delle economie più importanti d’Europa sembra destinata a continuare “en funciones”, senza un governo nei pieni poteri. Centosettantasei è il numero che segna il limite della maggioranza assoluta per la formazione di un esecutivo, una cifra troppo lontana da raggiungere per le coalizioni tra forze omogenee. Intanto c’è già chi reclama nuove elezioni, solo una grande coalizione tra socialisti e popolari potrebbero scongiurarle.

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