“Crediamo nella democrazia, ma dobbiamo riconsiderare i nostri alleati”. Mazloum Abdi, comandante in capo delle Forze Democratiche Siriane, fazione arabo-curda collegata all’Ypg, ha spiegato con queste parole su Foreign Policy la decisione dei curdi del Rojava di allearsi con Damasco in funzione anti-turca. L’accordo è arrivato grazie alla mediazione russa. “Noi non crediamo alle loro promesse – ha puntualizzato Abdi – ma è una questione di sopravvivenza“.

Così, la teoria del male minore va in scena in Siria, un’ennesima volta. Questo spettacolo l’avevamo visto quando la comunità internazionale accettò di buon grado l’intervento russo del 2015 nella guerra civile, giustificato come “lotta al terrorismo”. Il male minore si è ripresentato quando Assad è stato legittimato, in sordina, a continuare a perpetrare i propri crimini in nome della paura occidentale dell’Isis, il male maggiore.

L’accordo di due giorni fa, che fa riallineare i curdi dell’Ypg, braccio siriano del Pkk di Ocalan, prevede la consegna di Kobane, città simbolo della lotta allo stato islamico, e di Munbij all’esercito regolare, fedele a Bashar al Assad, già in marcia verso queste due località, come riporta la tv di stato siriana. Il sentore di questo accordo si era avuto qualche giorno fa. Dalle pagine del quotidiano governativo siriano Al Watan, Faisal Mekdad, vice ministro degli esteri di Damasco, aveva invitato i curdi dell’Ypg “a ritornare fra le file del governo” o sarebbero andati “incontro all’abisso”. E’ proprio quella parola, ritornare, pronunciato dal vice ministro siriano, a doverci far pensare. Quanto sono stati stretti i rapporti fra Damasco e il partito milizia curdo negli ultimi dieci anni?

A cavallo fra il 2011 e il 2012, quando la primavera siriana aveva portato in piazza centinaia di migliaia di persone (che non avevano incontrato le simpatie, politiche e non, di coloro che si sono ritrovati fuori dal consolato turco di Milano lunedì 14), Assad consegnò la regione dell’Hasakah all’Ypg per distogliere forze dal nord e far sedare da questi le simpatie dei civili verso la sommossa popolare. A finire ammazzato da uomini in maschera fu Mashaal Tammo, presidente del movimento Futuro. Stesso destino ha colpito la sua erede, Havrin Khalaf, assassinata da jihadisti filo turchi che hanno messo a tacere una voce già inascoltata perché, a differenza degli altri, parlava di convivenza fra arabi e curdi. Sapeva bene, la Khalaf, della pulizia etnica attuata dai curdi dell’Ypg – chi vuole si legga i rapporti di Amnesty – e quanto fosse necessario riconciliare le varie etnie.

Tutto questo, però, può già passare in secondo piano in nome degli interessi contingenti. Tra le altre, nel dimenticatoio, c’è una questione morale aperta da otto anni: perché il destino dei siriani non ha attratto le simpatie di quella sinistra che scende oggi in piazza? Non faranno parte, queste stesse persone di sinistra, di quell’amalgama a cui Erdogan è inviso perché dittatore? Allo stesso tempo, non saranno queste stesse persone a chiedere il ripristino delle relazioni diplomatiche e la riabilitazione politica di Assad? Inutile chiedersi se si siano mai accorti della contraddizione di un partito del quale hanno portato le bandiere in piazza, a discapito di quella curda. Un movimento, quello dell’Ypg, che si dice comunista, ma che è stato finanziato e sostenuto dagli americani. Come è inutile chiedersi se questi stessi simpatizzanti di sinistra siano oggi contenti che un partito milizia, autoproclamatosi democratico, sia alleato a un criminale di guerra come Assad.

E’ vero invece che il conflitto siriano ci sta insegnando molte lezioni. La prima: un genocidio è cominciato ben prima della scorsa settimana e ha già mietuto mezzo milione di vite. Allo stesso tempo questa carneficina è già stata negata. A nulla servono le lacrime di coccodrillo di qualche giornalista. La verità è che oggi assistiamo a un tipo di solidarietà internazionale ideologica: centrale non è l’identità della vittima, ma quella dell’assassino. E al diavolo l’ipocrisia, insieme ai civili che continueranno a pagare il prezzo più alto.

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