“Arrivano i curdi… oggi i turchi”. E’ un grido al lupo al lupo. Della Siria non se ne parlava più tanto, anzi. Era relegata nell’angolo. Sporadici spiragli di luce, fatti di flash di agenzia o di reportage scritti da giornalisti cowboy, la colpivano solo ogni tanto. Prendiamola un attimo alla lontana, la questione della Siria: non è mai stata contestualizzata ma vissuta solo con sentimentalisti ciechi. I curdi, ad esempio. Oggi sono messi sul piatto e sacrificati in nome di interessi più grandi – per Trump quello di distrarre l’opinione pubblica da ciò che avviene in casa.

Nel 2011, allo scoppio della primavera siriana, in una sollevazione popolare contro il governo quarantennale della famiglia Assad, diversi partiti curdi prendono parte alle proteste. A Qamushli come in tutta la regione dell’Hassakah – oggi chiamata Rojava dagli europei – decine di migliaia di curdi scendono per le strade. Tra chi guida le proteste c’è Mashaal Tammo, leader del movimento curdo Futuro, che venne assassinato di lì a poco da uomini in maschera. Qualche mese dopo, siamo già nel 2012, il governo di Damasco “consegna” la regione a maggioranza curda dell’Hassakah al… PYD. Il famoso partito milizia delle altrettante rinomate unità popolari YPG, per le quali migliaia di foreign fighters occidentali sono andati a combattere.

In tutto questo l’Isis non c’era ancora. Quando gli uomini in nero arrivano in Siria è il momento perfetto per tutti.

Il governo di Damasco, guidato dal difensore dei diritti umani Bashar al Assad, che piace molto a CasaPound, Lega e pure a certi Cinque stelle, finalmente può usare la scusa dello Stato Islamico per dire: “Avete visto, non c’è nessuna ribellione. Le decine di migliaia di prigionieri nelle mie carceri sono tutti jihadisti“. I russi, grazie ad al Baghdadi, possono mettere gli scarponi in Siria, insieme agli iraniani, nel 2015 sotto la bandiera della lotta al terrorismo. Gli americani, per non stare dietro agli altri, sostengono allora il PYD, armando e vestendo i soldati delle unità di protezione popolare. Così comincia il teatro, giovani, anche italiani, vanno a combattere con queste brigate curde in nome dell’internazionalismo e del comunismo, venendo stipendiati e sostenuti da Washington. La causa curda sale sui banchi. “Senza di loro la lotta all’Isis è impossibile vincerla“, dicono.

Cosa succede in Siria, oltre i curdi? Nello stesso tempo i bombardamenti russi, siriani, americani e iraniani frantumano ogni protesta dell’opposizione siriana. Assad riprende il controllo di Aleppo. Raqqa passa in mano curda e la piazza in cui gli oppositori democratici siriani venivano decapitati diventa il santuario di Ocalan. I villaggi del nord, al confine con la Turchia, vengono de-arabizzati. Una per tutte: Ayn al Arab diventa Kobane. Si parla della causa dell’indipendenza curda: il separatismo. Nei salotti televisivi italiani e non, c’è chi dice: “Da Aleppo in su, fino al confine con l’Iraq si può creare lo Stato per i curdi“. E non si chiedono “un siriano può immaginare di dover usare il passaporto per andare da Aleppo a Qamushli?”. E’ la sindrome di Sykes-Picot, il giocare con la carta geografica degli altri.

Ma oggi, a finire sulla panchina dei perdenti, ci sono proprio quelli del PYD che hanno giocato sempre una partita sporca. Non ci siano dubbi che le giravolte, i cambi di schieramento, non sono ancora finite. Un consiglio: allungate lo sguardo oltre il Rojava e troverete una Siria devastata, con mezzo milione di morti e milioni di sfollati a chiedersi perché il loro dramma non vale nulla.

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