Totò Riina voleva fargli fare la fine del “primo tonno, il tonno buono“. Voleva fare “un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari”: chiaro riferimento al periodo delle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dava fastidio al capo dei capi il lavoro di Nino Di Matteo, all’epoca sostituto procuratore di Palermo che indagava sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Ed è alla lotta alla mafia e ai misteri delle stragi che ha dedicato la sua carriera Di Matteo, appena eletto al Consiglio superiore della magistratura. Ha preso 1184 voti: “Sono tantissimi se pensate all’affluenza. E al fatto che lui è assolutamente estraneo da qualsiasi tipo di gioco correntizio“, dicono alcuni esponenti di Autonomia e Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo che lo ha sostenuto. Di Matteo, infatti, non è mai stato iscritto a nessuna corrente: e non lo ha fatto neanche ora, preferendo rimanere indipendente. Dopo la scandalo nomine, che ha portato alle dimissioni di ben cinque consiglieri togati, beccati a discutere con Luca Lotti e Cosimo Ferri del futuro di poltrone chiave al vertice di procure importantissime, al Csm arriva dunque un magistrato mai iscritto ad alcuna corrente: se non è un inedito poco ci manca.

Anzi a ben vedere Di Matteo dai giochi politici interni alla magistratura ha solo preso pesanti batoste. Magistrato dal 1993: da uditore giudiziario ha fatto da picchetto alle bare delle vittime della strage di Capaci. Poi da pm ha lavorato a Caltanissetta, dove ha indagato sugli omicidi della Sditta, sulle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di Antonio Saetta e Rocco Chinnici. Poi è tornato a Palermo, la sua città, dove si è occupato – tra le altre cose – delle indagini su Salvatore Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia poi condannato a sette anni di carcere per favoreggiamento a Cosa nostra. E poi ovviamente della Trattativa, l’inchiesta di cui è stato il pm più longevo: ha aperto le indagini nel 2009, poi era in aula a Palermo nove anni dopo il giorno delle pesanti condanne emesse dalla corte d’assise per mafiosi come Leoluca Bagarella, politici come Marcello Dell’Utri e alti esponenti delle istituzioni come Mario Mori.

In 28 anni non si è mai iscritto ad alcuna corrente quindi nessuna corrente ha mai pensato di appoggiarlo per un incarico da procuratore aggiunto. Di più: quando nel 2016 Di Matteo chiese di andare alla procura nazionale Antimafia, il Csm bocciò la sua candidatura, con il voto contrario dei vertici della Cassazione. Palazzo dei marescialli aveva proposto al pm di andare a Roma ma solo con una procedura straordinaria legata all’elevato pericolo corso dal magistrato a Palermo. Dopo le minacce di Riina, intercettate nel carcere milanese di Opera, era arrivato il pentito Vito Galatolo a raccontare del piano di morte organizzato da Cosa nostra per il pm. E Di Matteo – scortato dal 1993 – ha cominciato ad avere una vita letteralmente blindata. In via Giulia, però, voleva arrivarci con una nomina regolare: rifiutato il trasferimento per motivi straordinari, Di Matteo aveva ottenuto il via libera dal Csm alla procura nazionale nel 2017, al secondo tentativo.

Alla Dna il pm era entrato a far parte del pool di investigatori che indagava sulle entità esterne nelle stragi e negli altri delitti di mafia, argomento di cui è ormai una sorta di esperto nazionale. Ma la sua designazione non era piaciuta a Luca Palamara, il pm al centro dello scandalo nomine che ha portato alle dimissioni di cinque consiglieri del Csm e alla relativa elezioni suppletiva in cui è stato eletto il magistrato. “Cafiero De Raho non deve fare il gruppo (…) con Nino di Matteo”, diceva il 7 maggio scorso il pm intercettato. Quasi una premonizione. Venti giorni dopo, il 26 maggio, Di Matteo è stato rimosso dal pool sulle stragi. L’intercettazione di Palamara non c’entra. A Di Matteo, invece, viene contestato di aver rilasciato un’intervista televisiva ad Andrea Purgatori in cui aproposito della strage di Capaci ha detto: “È altamente probabile che insieme agli uomini di Cosa nostra abbiamo partecipato alla strage anche altri uomini estranei a Cosa nostra”. Concetti già ampiamenti noti. Eppure la Dna ritenne che quelle parole avevano comunque interrotto il “rapporto di fiducia all’interno del gruppo e con le direzioni distrettuali antimafia”.

Da quel momento il pm che Riina voleva uccidere in via Giulia è fuori dai giochi. E dopo lo scoppio dello scandalo nomine, la corrente di Davigo sceglie di proporgli la corsa a Palazzo dei Marescialli. Un’opportunità che mai prima d’ora Di Matteo aveva neanche considerato. Ma che ora definisce come “l’ultima possibilità di cambiare rotta prima che altri, a colpi di riforme spacciate come necessarie, lo facciano rendendoci squallidi burocrati“. È per questo, per non veder diventare la magistratura squallida burocrazia che Di Matteo ha accettato di candidarsi al Csm: il regno delle correnti per una toga mai iscritta ad alcuna corrente.

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