“Abdul aveva 23 anni quando è partito”. Abdul, però, non è mai arrivato e nessuno sa dove sia. Suo fratello, Saddam, ripete il nome in continuazione. Abdul potrebbe essere in Sicilia, in uno dei tanti cimiteri in cui vengono sepolti i resti di chi muore in mare. Saddam lo cerca da sei anni, da quando il peschereccio su cui si era imbarcato da Misurata si è capovolto a mezzo miglio dalla spiaggia dei Conigli. Abdul era tra i 368 morti, ma il suo corpo non è mai stato riconosciuto ufficialmente, confuso nella moltitudine dei cadaveri che la notte del 3 ottobre 2013 erano rimasti intrappolati nella pancia del barcone o erano stati portati via chissà dove dal mare in tempesta.

Saddam e Abdul Ajjouri erano lasciati alle spalle Aleppo e l’adolescenza a inizio 2011. La guerra civile che avrebbe distrutto la Siria era alle porte. “Mia madre ci aveva detto: ‘Dovete andare via, qui non c’è futuro per voi’. Così eravamo andati a Misurata a vivere da uno zio”, ricorda Saddam, che oggi ha 22 anni ed è tornato a Lampedusa per partecipare alla sesta Giornata della memoria e dell’accoglienza organizzata dal Comitato Tre Ottobre. Abdul si era messo a fare il muratore, in pochi mesi era diventato capomastro, in un paese pieno di petrolio nelle costruzioni si guadagnava bene. Saddam aveva ripreso la scuola. Una vita normale sembrava possibile, al telefono la sera i fratelli parlavano con i genitori della possibilità di farli arrivare dalla Siria. Poi era arrivata la Storia a mandare all’aria i loro piani. A ottobre era caduto Gheddafi e la guerra civile aveva sbriciolato ogni progetto di vita. “Eravamo alla mercé delle bande armate – ricorda il ragazzo – i miliziani entravano in casa armati e portavano via tutto quello e che volevano. All’ennesimo saccheggio siamo rimasti senza nulla”.

I documenti non li avevano mai avuti, perché il regime non glieli aveva rilasciati, i lavoratori a basso a costo, i sans papier ricattabili, fanno comodo ovunque: “Avevamo fatto domanda, ma non erano mai arrivati. Volevamo andare via, ma senza una Id card lavorare in un altro Paese africano come la Tunisia o l’Egitto era impensabile, avevamo paura di essere rispediti ad Aleppo (dove nel frattempo, nel luglio 2012, era arrivata la guerra e cominciata la battaglia durata quattro anni e mezzo che ne avrebbe fatto la città martire, ndr). Non c’era altra possibilità, così decidemmo di partire per l’Italia”. Per pagare il viaggio ai trafficanti erano rimasti pochi soldi, solo uno poteva andare. E fu Abdul: aveva una moglie e due bambini, più gente da salvare. “Voglio partire per i miei figli, mi aveva detto. E io sono stato d’accordo”.

In Siria e in Libia arrivò la notizia del naufragio, ma nulla su Abdul. Quando alcune ore prima su questa sponda del Mediterraneo, avvistata la terra, qualcuno aveva avuto l’idea di dar fuoco ad alcune coperte per segnalare la presenza del barcone, le fiamme avevano raggiunto la benzina di cui era cosparso il ponte e a bordo era scoppiato il caos. Il peschereccio si era rovesciato di 180 gradi e chi si trovava sovraccoperta era stato sbalzato in mare. Quelli che invece viaggiavano nella stiva erano andati a fondo con lui. Le operazioni di riconoscimento dei corpi avvennero nel caos. Era il primo caso in Italia, e non sarebbe stato l’ultimo. Parenti delle vittime, in maggioranza eritree, arrivarono da tutta Europa e per il primo centinaio di salme recuperate l’obiettivo fu faticosamente raggiunto. Ma il mare continuava ogni giorno giorno restituire cadaveri, che si accumulavano al porto. Presto, per ragioni sanitarie, i resti cominciarono a essere sepolti nei cimiteri della Sicilia, che fosse stato dato loro un nome o meno. Così la famiglia Ajjouri decise di partire.

I genitori di Saddam lo raggiunsero in Libia e partirono come aveva fatto Abdul: pagarono i trafficanti e nel dicembre 2013 presero il mare, da Zwara, alla volta dell’Italia. “Sulla barca eravamo trenta persone, una ventina erano miei famigliari – prosegue Saddam – Dopo 20 ore di mare sbarcammo in Sicilia e dopo alcuni giorni ci mandarono in un centro di accoglienza a Milano. Lì chiamai un mio amico in Norvegia e lui si offrì da aiutarci a fare le pratiche. Alcuni mesi più tardi eravamo a Trondheim, dove viviamo oggi”. Una casa, un lavoro, una prospettiva davanti. Ma il pensiero di Abdul disperso in mare o in qualche camposanto senza un segno che lo ricordi restava lì, a torturarli.

“Saddam, mi aveva detto una amica che vive in Tunisia, a Chebba, hanno ritrovato dei corpi sulla spiaggia e la tv ha detto che potrebbe trattarsi di naufraghi del 3 ottobre”, racconta il ragazzo. “Le onde, capisci? – prosegue – alcuni di questi morti sono arrivati fino in Tunisia trasportati da onde e correnti. Allora siamo andati fin lì, ma Abdul tra quelle salme non c’era”.

La vita è ricominciata a Trondheim, per quanto la vita possa ricominciare dopo la perdita di un figlio o di un fratello. Il prossimo anno Saddam andrà all’università per studiare psicologia. Ora anche la moglie di Abdul e i suoi due figli sono in Norvegia. “Adesso che loro sono in salvo, si è avverato il desiderio di mio fratello – racconta ancora Saddam con un sorriso intriso di serenità e rassegnazione – Era partito per dare loro una vita migliore, e ora ne hanno una. Io sono felice, ho fatto quello che dovevo fare. Il mio lavoro è finito”. Resta il solito, incessante tarlo: “Non avere un corpo su cui piangere ti uccide. Voglio sapere dov’è Abdul, e continuerò a cercarlo”.

Foto di Germana Costanza Lavagna

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